“La strada di casa”, di Kent Haruf
Traduzione Fabio Cremonesi
Editore NN Editore
Anno di edizione 2020
pagine 194
Kent Haruf (1943-2014), scrittore americano, dopo la laurea alla Nebraska Wesleyan University ha insegnato inglese. Prima di dedicarsi alla scrittura ha svolto diversi lavori, come operaio, bracciante, bibliotecario. Grazie ai suoi romanzi, tutti ambientati nella fittizia cittadina di Holt, ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Whiting Foundation Award e una menzione speciale dalla PEN/Hemingway Foundation. Con il romanzo Il canto della pianura è stato finalista al National Book Award, al Los Angeles Times Book Prize, e al New Yorker Book Award. Con Crepuscolo,secondo romanzo della Trilogia della Pianura, ha vinto il Colorado Book Award, mentre Benedizione è stato finalista al Folio Prize
Molto atteso da tutti quelli che hanno amato “La trilogia della pianura” e “Le nostre anime di notte”, lo scorso mese è finalmente uscito “La strada di casa” di Kent Haruf. Una sorta di pubblicazione postuma, perché Haruf ci ha lasciati da qualche tempo. Ma questo suo ultimo libro era in realtà uscito in America prima de “La trilogia della pianura”, quindi è ultimo solo in ordine di traduzione.
“La trilogia della pianura” sono tre libri che ho adorato. Ci avevo messo un po’ a comprarli, e mi ricordo che li avevo acquistati tutti e tre insieme alla Fiera del libro di Torino, alla stand dell’editore NN a cui si deve appunto il grande merito di aver fatto conoscere Kent Haruf a noi italiani. Sono tre libri che si sono fatti strada da soli con il passaparola, libri che i librai consigliavano ai loro lettori, che i lettori consigliavano ai loro amici e via di seguito. Quando un libro è bello, un modo per arrivare ai lettori lo trova; forse ci vuole un po’ di tempo, forse ci vuole moltissimo tempo (come nel caso di “Stoner” di John Williams), ma arriva. Su questo noi lettori non abbiamo dubbi. E ne siamo felici.
“La strada di casa”, “Benedizione”, “Canto della pianura” e “Crepuscolo” sono tutti ambientati a Holt, paesino immaginario, ma non tanto del Colorado. Uno di quei posti che abbiamo visto nei film, con la strada principale lungo la quale si affacciano i negozi, le case di legno con le verande, i silos giganteschi con il grano, il “ristorante” dove in realtà si mangiano carne e patate e apple pie, il bar dove ci si ubriaca il sabato sera. Il paesino dove non succede nulla; invece succede di tutto, perché la vita vera non abita solo a New York o Los Angeles o Parigi, la vita vera abita dappertutto e dappertutto sorprende, disfa, scompagina, distrugge e ricostruisce. Le persone vere stanno a Holt come stanno a Vertemate con Minoprio, Canosa di Puglia o Trebaseleghe, ci stanno con i loro sentimenti confusi e spesso sconosciuti a loro stessi, con la ricerca della felicità o anche solo della quiete, con l’inadeguatezza e la forza di cui sono capaci.
A Holt ci stanno brave persone, complessivamente. Poi tra tutte le brave persone, ne compare una, un giorno, che fin da giovane si distingue per un’esuberanza strafottente, per uno spirito indomito e in fondo in fondo cattivo; non perfido o calcolatamente cattivo, ma sicuramente cattivo negli effetti. Ne “La strada di casa” si tratta di Jack Burdette , che senza volerlo, o volendolo per sé, ma non contro nessuno in particolare, riesce a mettersi contro tutta Holt. Quello che fa è grave e imperdonabile (e voi perdonate, se non ve lo dico: per conoscere la trama del libro bisogna leggerlo) e le vite di tutti quelli che abitano a Holt ne vengono segnate in modo irrimediabile.
Ma non è questa la trama di qualsiasi libro? Succede qualcosa che nessuno si aspettava, e tutto cambia. E allora perché siamo tutti pazzi per Kent Haruf? Se non ci racconta nulla di nuovo, nulla di sconvolgente? E se per di più ce lo racconta con un linguaggio semplice e piano?
Perché Holt è come casa nostra. Quello che succede a Holt sarebbe potuto succedere dovunque. Di Jack Burdette ne abbiamo conosciuti tutti almeno uno, talvolta ci ha pure attratto e ci è rimasto simpatico, finché non ha fatto del male anche a noi. E tutti gli altri personaggi de “La strada di casa”, così come degli altri tre romanzi, sono figure così simili a quelle che abbiamo incontrato davvero, che ci sembra che Kent Haruf racconti la nostra storia. Per cui che bisogno avrebbe di parole sofisticate, di espressioni roboanti, di abbellimenti retorici o di infiorettature stilistiche?
Kent Haruf racconta la nostra storia con le nostre parole. Con la stessa sofferenza per i momenti terribili che ogni vita attraversa. Con la stessa incredulità iniziale, quando finalmente le cose prendono una bella piega e tutto sembra tornare a posto. Con la stessa gioia, quando l’amore è finalmente ricambiato, quando scopriamo la bellezza della natura intorno a noi, quando la neve si scioglie, quando i bambini nascono e sorridono e poi giocano nei prati. Con lo stesso strazio quando una vita finisce, all’improvviso o dopo una lunga agonia.
Kent Haruf non sa cosa sia l’indifferenza, la freddezza, il distacco del narratore onnisciente. Ne sa quanto noi, della vita e della sua complicatezza, e per questo la racconta come faremmo noi, e lo leggiamo commossi, rapiti, dispiaciuti quando il libro è finito.
Anche se non siamo mai stati in Colorado, anche se Holt è una città immaginaria, mentre leggiamo siamo lì, e lì continuiamo a tornare anche dopo che la lettura è terminata. Perché che cosa sarà successo ancora? Che cosa potrà ancora succedere? Dove sarà andato Jack Burdette? Continuerà a stare bene Victoria Rubideaux? Davvero non ce la poteva fare il vecchio McPheron? Una volta che li abbiamo conosciuti, gli abitanti di Holt restano con noi, per sempre.
Ho letto nella postfazione de “La strada di casa”, scritta da Fabio Cremonesi che ha tradotto anche la trilogia e “Le nostre anime di notte”, che il tema fondamentale del libro è la giustizia. La giustizia che manca, che non può essere fatta. È stato uno spunto a cui non avevo pensato, ma che mi ha convinto subito. Perché alla fine del romanzo, a differenza che alla fine degli altri tre, provavo uno stato di insoddisfazione, di disagio, di inquietudine. Al punto che mi ero chiesta se il libro mi avesse deluso, se per caso non avessi avuto delle aspettative troppo alte, cosa peraltro possibilissima visto sia quanto mi erano piaciuti gli altri romanzi sia quanto, a causa del Covid e del lockdown, la pubblicazione del volume italiano era stata annunciata e posticipata, riannunciata e riposticipata… Ma non era quello. Era il senso di un’ingiustizia che permaneva, di torti non riparati e neppure spiegati. E siccome il narratore si può permettere di risolvere tutti i nodi, di cambiare le carte in tavola, di modificare il corso delle cose, il fatto che Kent Haruf non se lo sia permesso è una prova ulteriore del suo modo di raccontare, di quel narrare la nostra storia, senza aggiungere e senza togliere. Non è stata fatta giustizia a Holt, come non è stata fatta… quante volte? nella nostra vita.
Siamo tutti Kent Haruf e viviamo tutti a Holt, verrebbe da dire di questi tempi in cui tutto si condivide e e tutto si sbandiera sui social network. Ma la verità è che Kent Haruf è uno solo, e non c’è più. Per fortuna ci restano i suoi romanzi, che possiamo passare alle persone più care e agli amici più vicini, e che potremo rileggere, quando avremo ancora voglia di commuoverci, di vivere profondamente dentro un libro.Non credo sia poco, che qualcuno sia capace di regalarci un lascito così integro, così prezioso, eppure così semplice e lindo.
Buona lettura!