La cucciolata
Mi fissa con cortese simpatia. Nei confronti dei giornalisti, l’Avvocato Agnelli ne ha una riserva illimitata che gli consente di sopportare la loro inesausta presunzione e superficialità. Mi fissa e aspetta la prima domanda. Ora che gli sono davanti vorrei non avergli chiesto l’intervista.
L’Avvocato, si sa, ama la stampa, i giornali e i giornalisti. Ma Dio, che rito noioso dev’essere per lui l’intervista! Chissà quante ne avrà fatte in vita sua… Più sei famoso e più il giornalista cerca l’intervista; più chiede cose che sono già state chieste e più riceve risposte che sono già state date.
L’uomo famoso è una cassaforte vuota. I documenti, i dossier riservati, le storie, i fatti, le cifre segrete sono già stati da tempo trasferiti negli studi e nei cassetti di avvocati, consiglieri, esperti di comunicazione dell’azienda: tutti gli uomini ‘stop’ di un personaggio illustre.
In Italia, l’Avvocato è certo l’uomo più famoso, il re amato che i Savoia non ci hanno concesso. Cosa volete che un giornalista gli chieda? Se la Fiat venderà agli americani? Se la Fiat farà un accordo con la Volkswagen o con la Daimler Benz? Pfui!, dice Nero Wolfe di fronte alla stupidità di una domanda inutile.
Vorrei non avergli chiesto l’intervista e che il suo ufficio stampa non l’avesse caldeggiata rispetto a trecento richieste dall’Italia e dall’estero in lista di attesa. Mi imbarazza essere uno dei tanti giornalisti che, di fronte alla cassaforte spalancata ma vuota degli affari dell’Avvocato Agnelli, cerca la domanda a effetto, la domanda che gli faccia fare bella figura con l’Avvocato. E i lettori? Che si vadano a impiccare… qui mi sto giocando un’occasione irripetibile. Tiro il collo alla mia fantasia rischiando di strozzarla purché venga fuori almeno uno stridio. Sento in gola un irrefrenabile impulso: “Come sta, Avvocato?”. Il ridicolo mi tappa la bocca. Mi fissa ancora, paziente, e poi mi viene in aiuto: “Conosco il suo giornale. E quando riesco a trovare un momento di tempo per leggerlo mi diverto sempre”. Tutti sanno che per l’Avvocato uno degli spauracchi tremendi è la noia. E a quelle sue parole mi viene voglia di alzarmi, di cadere in ginocchio, afferrargli la mano per baciarla, poi fare due passi indietro e congedarmi: “Grazie, Avvocato, Dio gliene renda merito!”. Ma poi, con un’esplosione di adrenalina, esalo la prima domanda: “Avvocato, dei suoi rapporti con i giornali e con La Stampa io so soltanto dei ‘si dice’”.
Mi risponde con un movimento impercettibile delle labbra. Come dire: “Molto interessante”.
Prima – Si dice che lei abbia un’indiscussa primazia nella scelta e nella nomina dei direttori del quotidiano della Fiat. E si dice anche che nessuno sappia quale sia la sua personale procedura per la scelta del direttore della Stampa. Questi ‘si dice’ tendono a sostenere che la nomina dei direttori è una decisione cui lei arriva per ragioni indecifrabili che, comunque, riguardano più la sua simpatia per il personaggio che il suo giudizio per il professionista. Non voglio dire che sia una scelta umorale ma che curiosità per l’uomo, attenzione alla sua collocazione politica, alla sua storia culturale, ai suoi trascorsi ideologici pesino più che la valutazione dei suoi successi professionali, dei gradini della sua carriera di giornalista. Ma io non credo che lei metta gli occhi su un giornalista perché va bene per l’Avvocato, ma perché va bene per La Stampa. E credo che i fattori che fanno di un giornalista l’uomo giusto per dirigere La Stampa derivino dalla posizione che il suo quotidiano deve avere in un certo periodo della situazione italiana. Si sceglie Alberto Ronchey, corrispondente da New York, perché è il giornalista che ha coperto con grande competenza l’elezione di Nixon a presidente degli Stati Uniti e perché si pensa che la politica di Nixon avrà grande influenza sull’Europa; si nomina Paolo Mieli quando i soprassalti del mondo politico italiano richiedono un direttore che sia un grande esperto dei partiti italiani e dei personaggi del Palazzo romano. C’è qualcosa di sensato in queste osservazioni?
Avvocato Agnelli – Guardi, parliamo dei direttori della Stampa sui quali ho potuto dire la mia. Il primo dei quali è stato Alberto Ronchey. Prima di Ronchey, i direttori fondamentali della Stampa sono stati Alfredo Frassati, direttore per trent’anni prima della guerra, e Giulio De Benedetti, dopo la guerra, per altri vent’anni. Tra Frassati e De Benedetti ci sono stati altri direttori di primissimo ordine, come Luigi Salvatorelli e Burzio, che tuttavia subirono i contraccolpi del periodo disordinatissimo della fine della guerra. In quel periodo gli avvicendamenti alla direzione della Stampa furono tumultuosi e disordinati. Durante la direzione di De Benedetti – che ebbe difficoltà con il regime e si rifugiò in Svizzera con l’aiuto di mio nonno – ci furono momenti di grossa battaglia, come lo scontro con il Partito comunista e quello con L’Unità che fu per noi un successo enorme perché avevamo ridotto L’Unità a vendere meno copie. Mi ricordo che la gente si lamentava perché La Stampa era diventata radicaleggiante. E io rispondevo: “Sì, ma è così che abbiamo ridotto L’Unità a vendere meno copie”. E allora qualcuno replicava: “Certo, che se faceste La Stampa come L’Unità, L’Unità di copie non ne venderebbe nemmeno una”.
Prima – Lei andava d’accordo con De Benedetti?
Avvocato Agnelli – De Benedetti era un uomo molto difficile. Ma su una cosa eravamo del tutto d’accordo… lui aveva ormai un’ottantina d’anni… eravamo d’accordo che l’uomo più adatto per la direzione della Stampa dopo di lui era Alberto Ronchey. Mi ricordo che pregai Ronchey di prendere la responsabilità della Stampa quando Nixon fu eletto presidente degli Usa. Era il novembre del ’68 e Ronchey copriva per La Stampa l’avvenimento dall’America, da New York. Lui mi disse subito di sì. Tornai a Torino e lo dissi a De Benedetti. Che osservò: “Sarebbe bene, però, che stesse un po’ di tempo con me a fare il condirettore”. E Ronchey replicò: “Non ci penso nemmeno!”.
Prima – Era una maniera per farlo fuori.
Avvocato Agnelli – Ronchey ne capì la pericolosità. Era un rischio che non voleva correre. Ronchey è stato direttore per cinque o sei anni, fino al ’73. E ha fatto molto bene: come qualità del giornale e come apertura internazionale.
Prima – Non s’è mai capito bene perché ha lasciato.
Avvocato Agnelli – Ronchey si era stancato molto. Alla fine era nervosissimo… voi lo conoscete: è un uomo che si irrita facilmente. E chi lo innervosiva particolarmente era Giovanni Giovannini… Ma questa è un’indiscrezione.
Prima – Non aveva tutti i torti.
Avvocato Agnelli – Era molto nervoso. Per di più stavano facendo dei lavori a casa sua che non lo facevano dormire. Era molto nervoso. Così mi disse: “Basta, questo lavoro non lo posso più fare”.
Prima – Giovannini allora era vice direttore, mi sembra.
Avvocato Agnelli – No, dal febbraio ’72 era amministratore delegato della Stampa. Seguiva anche gli interessi che avevamo con il Corriere… Insomma, Giovannini lo innervosiva molto.
Prima – Lei chiese il parere di Ronchey per il successore?
Avvocato Agnelli – Sì, gli chiesi se aveva qualche nome da suggerirmi. Ma lui mi disse che non voleva entrare nella storia del successore. “Ma guardi”, gli dissi io, “che ho già scelto Arrigo Levi”. “Ah, ma allora va benissimo”, replicò lui. “È quello che avrei scelto anch’io”.
Prima – Brutti tempi, quelli, con il terrorismo che dilagava.
Avvocato Agnelli – Eh sì. Ma devo dire che Levi si batté con determinazione. C’era il terrorismo, con il terribile caso dell’uccisione di Casalegno; e avevamo anche delle noie con Gheddafi perché Fruttero e Lucentini lo sfottevano. Dovetti recuperare con Gheddafi perché mi faceva il sabotaggio sulle commesse della Libia alla Fiat. Voleva che licenziassi Levi.
Prima – Ma chi, Gheddafi?
Avvocato Agnelli – Sì, Gheddafi. Fruttero e Lucentini avevano scritto sulla Stampa un articolo che sfotteva Gheddafi.
Prima – Gheddafi era già azionista della Fiat?
Avvocato Agnelli – Non mi pare ancora. Venne a Roma Jallud, il plenipotenziario di Gheddafi, e mi disse che Gheddafi voleva che io licenziassi Levi perché sennò avrebbe boicottato gli acquisti Fiat. È ovvio che non ci pensavo nemmeno lontanamente a licenziare Levi. Ma fu un momento tempestoso con Gheddafi.
Prima – Una tempesta in un bicchiere di sabbia.
Avvocato Agnelli – Eh no, il colonnello non andava mica preso tanto sottogamba. Jallud riferiva con forza che Gheddafi si era arrabbiato moltissimo. Ci misero sulla lista di boicottaggio. Avevamo forniture di camion che vennero bloccate. Fu un fenomeno grave per la Fiat. Poi facemmo pace. E, infatti, quando qualche mese dopo Fruttero e Lucentini pubblicarono un altro articolo strafottente, non ci furono guai. Ma fu un brutto momento. Oltretutto Arrigo appartiene a una religione che a Gheddafi non è tanto simpatica.
Prima – Lei pensa che Gheddafi sospettasse che la decisione degli attacchi di Fruttero e Lucentini non fosse farina del sacco della Stampa ma dell’internazionale ebraica che soffiava sul fuoco?
Avvocato Agnelli – Ma forse anche questo.
Prima – Dopo Levi tocca a Giorgio Fattori.
Avvocato Agnelli – Quando chiesi a Fattori di prendere la responsabilità della Stampa non ebbe un attimo di esitazione. E questo mi sorprese, perché quello era un periodo molto pericoloso e la gente non veniva volentieri a fare il direttore della Stampa. Mi sorprese la sua risposta immediata. Ci voleva carattere con quel clima cupo in città e in redazione. Era molto pericoloso. Ricordo che a Milano la pistola andava molto. Certi personaggi la depositavano quando entravano al ristorante, a cena, e la riprendevano quando uscivano. C’era addirittura chi, prendendo l’aereo per Roma, lasciava le sue due pistole all’autista e gliele ridavano quando atterrava di ritorno.
Prima – La pistola era uno status. Alcuni poi si divertivano a fare il boss all’americana. Come Ciarrapico, che riceveva i giornalisti con la pistola in bella vista sulla scrivania. Ai giornalisti faceva un certo effetto. Tanto è vero che nessuno ha mai pensato di controllare se per caso non fosse una pistola ad acqua.
Avvocato Agnelli – Il clima era quello, un clima pericoloso. E la risposta di Fattori – quel sì immediato, istantaneo – mi sorprese. Devo dire che, ancora oggi, quando si nomina Fattori alla Stampa, lo si fa col rispetto e riguardo per uno che è stato un grandissimissimo direttore. Coraggio e decisione nell’entrare, e grande dignità sempre. Quando, verso la fine del suo mandato, gli fu offerta la direzione del Corriere da Bazoli – che allora era il sequestratario del Corriere – lui disse no perché si sentiva impegnato con La Stampa. Un atteggiamento di qualità perché l’accoppiata Stampa-Corriere è il sogno di tutti i direttori. Come fece poi Mieli.
Prima – Lui sì che ci sa fare.
Avvocato Agnelli – Anche Ronchey ci teneva, e ci andò molto vicino.
Prima – Del resto andare al Corriere in quell’epoca non era proprio il massimissimo, come dice lei.
Avvocato Agnelli – Poi dopo Fattori venne Scardocchia, che era un uomo di grandissime qualità. E tentò quel nuovo formato della Stampa con i ‘dorsi’, che non è andato molto bene. Questo l’ha inquietato e l’ha messo in difficoltà con la redazione. Tanto è vero che un giorno gli ho detto: “Che ne direbbe, Scardocchia, di fare il corrispondente da New York?”. E lui mi rispose: “Non sa come la ringrazio. Non vedevo l’ora”. E quando è andato a New York è stato il migliore corrispondente che abbiamo mai avuto. Andare a New York fu per lui una vera liberazione dalla gestione del giornale. Lei mi ha chiesto se è vero che sono io a decidere la scelta e la nomina dei direttori della Stampa. E me lo chiede come se questo fosse un incarico anomalo. E io le rispondo che tra tutti quelli che hanno la pesante responsabilità della produzione Fiat – auto, camion e mezzi movimento terra – io in effetti ho più tempo per queste cose. Non voglio dire che ho più tempo da perdere, ma più tempo certamente.
Quando venne Ronchey lo decisi io insieme a De Benedetti. Quando venne Fattori lo decise praticamente lui. Arrigo lo decisi io. Dopo Scardocchia, decisi io per Mieli. Vorrei quasi dire che Mieli lo inventai io, anche se lo conoscevo come responsabile della nostra sede di Roma. Per Mieli parlai con due persone, Fattori e Romiti. Fattori mi disse che non lo conosceva, e che si sarebbe informato. E mi dette luce verde. Romiti lo conobbe in quella occasione ed espresse subito un’opinione positiva. Ma in sostanza Mieli lo conoscevano pochi per darne un giudizio come direttore.
Prima – Un po’ strano, no? Mieli era stato un giornalista dell’Espresso molto noto a Roma.
Avvocato Agnelli – Ma vede, Torino è un mondo di quotidiani che conosce poco i settimanali.
Prima – Non ha mai parlato di Mieli con Carlo Caracciolo?
Avvocato Agnelli – Non in vista della sua nomina.
Prima – Ha fatto bene, perché allora Caracciolo non aveva una grande opinione di Mieli. Quando si trattò, infatti, di sostituire Livio Zanetti alla direzione dell’Espresso, io gli dissi: “Ma scusa, Caracciolo, tu hai in casa Mieli e Alberto Statera che sono una coppia eccezionale, sperimentata, pronta a prendere in mano L’Espresso domattina”. E lui rispose: “Mieli? No, Mieli è un palle mosce”. Per dire che anche i grandi riescono a prendere delle solenni cantonate.
Avvocato Agnelli – Mieli è un tipo straordinario, unico. L’avevo conosciuto come responsabile della redazione romana della Stampa. Grandissime qualità. E avevo subito capito che era un direttore perfetto per La Stampa. E ne sono stato contentissimo. E poi è stato molto bravo a chiamare vicino a sé Ezio Mauro, che sarà il direttore dopo di lui.
Prima – È il suo vanto: io sono un direttore, dice, che quando se ne va lascia sempre una squadra pronta per prendere in mano il giornale. Quando se n’è andato dal Corriere aveva pronta la squadra di Ferruccio de Bortoli, che sta facendo molto bene, no?
Avvocato Agnelli – Benissimo.
Prima – La cosa che mi ha sempre stupito un po’ nell’avvicendamento dei direttori alla Stampa è stata la grande differenza di personalità tra chi usciva e chi entrava.
Avvocato Agnelli – Lei pensa che questa diversità rispecchi la diversa posizione della Stampa rispetto al mondo politico romano e alle contingenze industriali. Ma non è così. La mia scelta è sempre stata determinata da questa considerazione: sono o no uomini in grado di guidare un quotidiano come La Stampa? Un quotidiano che ha una personalità solida, che non può essere stravolta da chi lo dirige. Certo che non trascuro le contingenze politiche o economiche. Mieli, ad esempio, è un grande esperto di politica interna, come lo è anche il nostro Marcello Sorgi. Le dico la verità: mi interessano molto quando parlano di politica. Tanto Mieli quanto Sorgi sanno decriptarla come nessuno.
Prima – D’accordo, Avvocato. Ma prendiamo l’avvicendamento tra Mieli e Mauro. Bravissimi tutti e due, ma Mieli è Bisanzio, uno straordinario affabulatore: non spiega ma allude, ti spinge a intuire, a supporre; ti stimola ad arrischiare scenari, a individuare percorsi politici sottotraccia. Mauro, invece, è un’indomabile macchinetta di opinioni decise ed esplicite.
Avvocato Agnelli – Mauro è stato nominato direttore quando Mieli è andato al Corriere dopo Stille, subentrando a Giulio Anselmi, il condirettore di Stille, al quale si attribuiva al 90% la gestione del Corriere. Anselmi diceva che il Corriere di Stille era in realtà lavoro soprattutto suo.
Prima – Credo che sia assolutamente vero. Tanto che la sua mancata nomina a direttore del Corriere è stata presa molto male da Anselmi, e considerata da molti una sorprendente ingiustizia.
Avvocato Agnelli – Ma Stille è stato uno dei più amati direttori del Corriere.
Prima – Non c’è dubbio. Anselmi maneggiava il bastone del Corriere, Stille distribuiva le carote. Anselmi toglieva le castagne dal fuoco e Stille, piacevolissimo commensale, se le mangiava insieme ai suoi preferiti annaffiandole con del buon Lambrusco. Quando hanno nominato Mieli, è stato per Anselmi un brutto colpo. E dopo un po’ se n’è andato al Messaggero, nonostante qualche lieve insistenza di Mieli per trattenerlo.
Avvocato Agnelli – Del resto i direttori del Corriere, tutti, hanno una mano santa che li protegge nel loro lavoro, la mano santa di Piero Ottone, che fece con la redazione il famoso ‘patto Ottone’. Quando al Corriere c’è qualche difficoltà o pasticcio, la colpa è sempre di Ottone.
Prima – La redazione del Corriere dovrebbe mandare a Ottone, tutti i giorni, un mazzo di rose rosse per i poteri eccezionali che le sono stati concessi dal patto Ottone, e mai più totalmente ritirati. Sono, invece, gli editori e i manager del Corriere che vorrebbero mandare a Ottone una spremuta di cicuta per la prima colazione. Ma, Avvocato, anche lei, forse, vorrebbe mandare un bicchierino di cicuta a Caracciolo e a De Benedetti che gli hanno scippato Ezio Mauro.
Avvocato Agnelli – Mauro è stato per me un’autentica sorpresa. Ero sicuro che sarebbe rimasto alla Stampa non dico tutta la vita, ma per dieci o quindici anni almeno. E invece Caracciolo l’ha convinto ad andare a Repubblica.
Prima – Su Mauro l’occhio dell’Avvocato non è stato così lungo come al solito. Ma anche su Carlo Rossella lei ha accusato qualche miopia.
Avvocato Agnelli – Rossella aveva fatto molto bene alla Rai come direttore del Tg1. Poi quando è arrivato alla Stampa mi sono reso conto che si era innamorato della tivù e che la sua passione per i viaggi era molto forte. Non gli riusciva di stare fermo. Lui ha il viaggio incorporato. Poi, lasciata la gestione del giornale, era contentissimo di essere andato a Washington. Ma ora vedo che è andato con Berlusconi ed è tornato nel mondo della televisione.
Prima – Lui era, in effetti, contentissimo di stare a Washington, e immaginava di poter fare un lavoro molto importante per La Stampa. Poi si è reso conto che con Sorgi non batteva un chiodo. Sorgi lo teneva a stecchetto, l’aveva messo a dieta di servizi e la sua visibilità come inviato stava andando a rotoli. Così è scappato da Berlusconi prima che Sorgi gli uccidesse la firma.
Avvocato Agnelli – Escludo che Sorgi avesse questa intenzione. Credo che le scelte di Rossella siano state dettate dal suo desiderio di tornare in tivù. Mi dicono che lui spiega a tutti che ha detto di sì a Berlusconi prima del successo elettorale del capo dell’opposizione.
Prima – La verità è che è stato Berlusconi a dire di sì a Rossella prima del successo elettorale.
Avvocato Agnelli – Credo che Rossella possa essere molto utile a Berlusconi.
Prima – Credo proprio di sì: televisione e viaggi, pane per i suoi denti. Ora, dunque, perduto Rossella, rapito dai suoi viaggi mitici, vestito con la sahariana, i capelli al vento delle pale dell’elicottero che lo aspetta su un fazzoletto di deserto per portarlo chissà dove, ora siamo arrivati a Marcello Sorgi, il direttore della Stampa che, con l’eccezione di Fattori, è l’unico direttore a sedere nel consiglio di amministrazione dell’Editrice La Stampa. Cosa vuol dire questa responsabilità amministrativa? Non sarà certo per premiarlo del suo lavoro, visto che è appena arrivato.
Avvocato Agnelli – Ma no. Il giornale è oggi un prodotto che rischia di decadere se non addirittura di morire. E noi siamo di fronte a questa parola ‘multimedialità’ che suggerisce nuove prospettive editoriali per il giornale. E allora bisogna chiedersi: cosa vuol dire multimedialità? Come la si può applicare e quali risorse richiede, e quali rischi siamo disposti a correre? A luglio, in quel consiglio di amministrazione della Stampa dov’era presente per la prima volta Sorgi, c’era anche Cantarella in rappresentanza dell’azionista. Cantarella non era lì per assumere responsabilità di gestione, ma per dire: “Portateci delle idee e la Fiat vedrà in che maniera sia possibile realizzarle”. I programmi sulla multimedialità sono a redditività differita ed è quindi necessario che la loro realizzazione operativa sia decisa dagli azionisti del giornale. Il direttore del giornale membro del consiglio di amministrazione è una garanzia di gestione dei programmi multimediali, assistito anche dalla competenza e dalla propensione per il mercato della multimedialità di Gianni Riotta, il condirettore della Stampa.
Prima – E il Corriere della Sera?
Avvocato Agnelli – Noi siamo gli azionisti più grossi della Hdp, che è la finanziaria che ha in portafoglio il 100% della Rcs Editori. Direi che oggi il Corriere non ha problemi.
Prima – La Fiat è entrata due volte nell’azienda del Corriere della Sera. Una prima volta come partner al 33% di Giulia Maria Crespi, insieme al 33% di Moratti, che era in sostanza Eni. E una seconda volta nel novembre dell’84 con amministratore delegato Carlo Callieri, rilevando l’azienda dall’amministrazione controllata. In quel caso i Rizzoli dissero che gli avevate scippato l’azienda. Ma dal Corriere siete sempre usciti. Non vi è mai venuta la tentazione di tenervi il Corriere?
Avvocato Agnelli – Noi siamo sempre entrati al Corriere come copertura. Quando siamo entrati con Callieri l’alternativa era De Benedetti.
Prima – Appunto. Perché non vi siete tenuti allora il Corriere?
Avvocato Agnelli – Presenti come garanzia, copertura e aiuto per i direttori. Mai come padroni. La prima volta siamo entrati al Corriere per dare una mano a Giulia Maria Crespi che era in difficoltà perché la famiglia voleva vendere. Erano i tempi in cui tutti parlavano dell’editore puro. La Fiat era editore impuro; Moratti, petroliere, era impuro; Giulia Maria Crespi era anche lei semimpura con tutti gli altri interessi di famiglia. Così quando Giulia Maria non se la sentì più di gestire l’azienda e vendette all’editore puro Rizzoli, vendemmo anche noi. D’altra parte per noi, come per Moratti, diventare editori puri voleva dire rinunciare alle nostre industrie. Meglio vendere a Rizzoli. Peccato che abbia fatto il passo più lungo della gamba e sia finito nelle mani della P2.
Prima – Lei ha fatto a tempo ad assistere al fantastico licenziamento di Giovanni Spadolini da parte di Giulia Maria Crespi?
Avvocato Agnelli – No, non c’eravamo ancora. Mi ricordo che andai a trovare Spadolini nel suo studio due giorni prima del fattaccio. Lui non lo sospettava affatto. Due giorni dopo fu mandato via. E Montanelli disse che Giulia Maria Crespi aveva fatto un colpo da guatemalteca.
Prima – Alessandra Ravetta, condirettore di Prima, che fa la sua parte in questa intervista, mi ha pregato e insistito perché non le facessi la seguente domanda. Ma io voglio rischiare la banalità: lei, Avvocato, ama di più l’auto o il quotidiano?
Avvocato Agnelli – Ma vede, l’auto è la Fiat, è la vita della Fiat. Il nostro giornale ci caratterizza per il modo come lo facciamo e come lo gestiamo. Per settant’anni La Stampa ha dato credito alla Fiat, invece che danno. E questa è la cosa di cui andiamo più fieri. Fieri che La Stampa sia economicamente indipendente, perché se sei indipendente sei libero. Nel caso della Stampa, essere economicamente indipendente vuol dire essere indipendente anche dalla Fiat. Io non potrei mai andare dagli azionisti Fiat e dire: “La Punto costa cento lire di più perché deve mantenere La Stampa”. Mai, mai.
Prima – Gli azionisti Fiat decideranno per il giornale investimenti più sostanziosi di quanto hanno fatto fino a ora? È evidente che la gestione della Stampa è molto risparmiosa.
Avvocato Agnelli – Molto. Stiamo molto attenti al conto economico. Risparmiosi? Sì, è vero, perché noi non crediamo negli investimenti promozionali per drogare la tiratura e la diffusione… tutti quei gadget, quei giochetti… Noi pensiamo a investimenti o per nuove tecnologie o per nuove direttive del giornale.
Prima – Ma è vero, tuttavia, che gli investimenti del Corriere e di Repubblica non sono decisi per fare i gradassi in copie e vendite, ma per aumentare il peso della testata nella raccolta pubblicitaria, nel potenziamento della testata come mezzo pubblicitario. Voi avete una vostra concessionaria, la Publikompass, che pur dedicandosi particolarmente alla raccolta pubblicitaria per La Stampa, non è tuttavia…
Avvocato Agnelli – Non la convince molto.
Prima – Avvocato, non voglio dire così.
Avvocato Agnelli – Però è vero che non la convince molto.
Prima – Voglio dire che la Publikompass – nobile signora della raccolta pubblicitaria – dimostra forse di non avere la grinta di altre concessionarie di quotidiani: come la Manzoni, che lavora per Repubblica; o come la concessionaria della Rcs Editori, che raccoglie per il Corriere. Voglio dire che non mi sembra di aver mai sentito da parte della Stampa gridi di giubilo per il suo fatturato pubblicitario.
Avvocato Agnelli – Ma ora c’è Vittorio Ravà come responsabile della Publikompass.
Prima – L’ho sentito l’altro giorno e mi è sembrato un po’ preoccupato sui tempi necessari per cambiare volto alla Publikompass.
Avvocato Agnelli – È difficile, certo. Ma è per questo che ora c’è Ravà. Per le cose difficili ci vogliono uomini in gamba.
Prima – Ma lei non trova, comunque, che nella concorrenza per la raccolta pubblicitaria le promozioni della Stampa siano troppo sottodimensionate rispetto a quelle del Corriere e di Repubblica?
Avvocato Agnelli – Ma no. Noi crediamo che Repubblica e Corriere spendano tanti miliardi in promozione perché sono l’uno contro l’altro. Il loro è un balletto sulle punte dei piedi: uno si alza sulle punte dei piedi, e allora anche l’altro si alza sulle punte dei piedi. Riteniamo che siano investimenti precari: li fai e le vendite aumentano, li interrompi e le vendite tornano al punto di prima. Noi non badiamo troppo agli strappi di vendita in edicola, noi badiamo soprattutto alla continuità dell’autorevolezza della Stampa. E sappiamo che l’autorevolezza della Stampa, il suo prestigio nazionale e internazionale non dipendono certo dalle 20 o 50mila copie in più, dipendono dal suo equilibrio, dalla sua serietà, dall’autorevolezza e dalle sue firme. E cresce, poi, quando l’economia del Piemonte è forte, quando la Fiat va molto bene, fa dei conti importanti, degli accordi internazionali. Allora il peso politico della Stampa cresce al di là della sua roccaforte diffusionale che è il Nord Ovest. Certo, abbiamo sempre viva l’ambizione di essere un giornale nazionale piuttosto che un giornale provinciale. Ma sappiamo di avere comunque peso nazionale a Roma, e autorevolezza internazionale a Parigi, Londra, Washington dove La Stampa gode di grande attenzione.
Prima – Le racconto un fatterello. L’altro giorno, Lucia Annunziata, che lavoricchia per il Corriere, ha incontrato Claudio Velardi, consigliere di D’Alema.
Avvocato Agnelli – Non lo conosco, ma mi dicono che è divertente.
Prima – Sì, è un brutalone molto intelligente. Lucia Annunziata, sia quando faceva per la tivù ‘Linea tre’ che dopo, come direttore del Tg3, aveva avuto rapporti molto stretti con Velardi e con D’Alema. E in quell’incontro con Velardi osservava come i Ds avessero ora un atteggiamento molto freddo nei confronti della stampa e dei giornalisti, quasi sprezzante, molto diverso da quando la stampa combatteva fianco a fianco con la magistratura. Velardi replicava che non era disprezzo per i giornalisti ma conseguenza del riconquistato primato della politica. Battibecco. E poi Velardi l’ha gelata con questa frase: “Ma state zitti, voi giornalisti, che non contate più niente!”.
Avvocato Agnelli – È la stessa cosa che pensa D’Alema. Io, un uomo politico che tratta così male stampa e giornalisti, lo ammiro molto. Di solito i presidenti del Consiglio si lamentano sempre della stampa. E così una volta gli ho chiesto: “E con i giornali come va?”. E lui: “Io i giornali non li leggo. Per me potrebbero fare a meno di andare in edicola”. Il disinteresse massimo.
Prima – Rapporti burrascosi della Stampa con i politici?
Avvocato Agnelli – Ricordo solo Fanfani che si arrabbiò, fece urli terribili per un articolo di Gorresio che l’aveva sfottuto. Ma per il resto no, nessun guaio che io ricordi. Piuttosto ogni tanto qualche politico ha dei soprassalti per gli articoli del nostro Minzolini. Io lo trovo bravo e divertente. Ogni tanto gli telefono e mi faccio raccontare qualche cosa in più di quanto ha scritto. Trovo intelligente il modo con cui riesce a rendere divertenti le cose serie. Io dico che in questo Paese qui, con tutti i guai che abbiamo, se ogni tanto non ci confortasse la valvola dell’ironia…
Prima – È anche vero che siamo bravi a divertirci.
Avvocato Agnelli – Sì, purtroppo ci hanno allenati all’ironia.
Intervista di Umberto Brunetti