Il ruolo giocato dall’Unione Europea nella rivolta araba e, ancora di più, nella crisi libica, è apparso defilato e privo di impulsi autonomi dalle iniziative degli stati membri. In effetti, la decisione di intervenire contro il regime di Gheddafi è stata presa essenzialmente dietro la spinta di Francia e Gran Bretagna, mentre l’Europa si è spaccata, come è successo peraltro in passato. L’Alto rappresentante della politica estera Ue Catherine Ashton si è limitata a condannare le violenze in nord Africa e Medio Oriente arrivando a sostenere la linea dell’Unione africana: “Appoggiamo gli sforzi dell’Unione africana per trovare una soluzione politica in Libia”, ha detto il suo portavoce. I detrattori della politica estera e di difesa comune hanno ribadito in questa vicenda l’inconsistenza di una coordinata ed efficace strategia d’intervento politico e diplomatico utile a interfacciarsi con i paesi vicini; i suoi sostenitori hanno percepito come strumentali queste accuse evidenziando come le responsabilità non siano della Ue ma della politica nazionalista e particolarista di singoli paesi. Altro tema delicato che ha diviso l’Europa è quello relativo alla gestione della crescente immigrazione proveniente dalle aree interessate dalle rivolte, in particolare dalla Tunisia: in mancanza di una politica centralizzata sui migranti, è prevalsa ancora una volta la logica degli stati nazione, che ha visto emergere di interessi e politiche divergenti. Il risultato è un conflitto diplomatico tra gli stati membri scaturito dalla richiesta italiana di sostegno da parte dell’Unione europea.
Antonio Villafranca (Senior Research Fellow ISPI, Osservatorio Europa): “C’è più bisogno di Europa, di un’Europa che parli con una sola voce, come ha recentemente ricordato a tutti anche il Capo dello Stato. E’ bene al riguardo ricordare che l’Europa può intervenire solo nei campi in cui le sono attribuite competenze. Non ci si può lamentare adesso dell’assenza di Bruxelles nelle rivolte arabe senza ricordare che nemmeno i poteri attribuiti dal nuovo Trattato di Lisbona a Lady Ashton possono derogare all’imperativo dell’unanimità su politica estera e sicurezza comune. Non ci si può nemmeno lamentare dei modesti interventi di Frontex se all’Agenzia vengono destinati appena 88 milioni di euro all’anno (erano ancor meno, 22 milioni, nel 2008). Né dell’angusto campo di applicazione della Direttiva 55 sulla protezione temporanea, originariamente prevista per il Kosovo ma mai di fatto applicata. L’Italia si deve far portavoce di questa esigenza con costanza e profondo convincimento e non solo quando si trova in emergenza, anche per non fornire facili scuse a Francia e Germania”.
Riccardo Perissich (già alto funzionario Commissione Europea): “La prova europea è stata deludente. E’ però difficile dire che la politica estera Ue sia morta in questo frangente, perché non è mai cominciata. E’ di moda dare la colpa a Catherine Ashton, che in realtà si è dimostrata piuttosto scadente, ma è un giudizio ingeneroso. E’ stata scelta in modo tale che la funzione del ministro degli esteri dell’Unione fosse ciò che lei effettivamente ne ha fatto: una funzione largamente decorativa. Quello che è successo è che i due paesi europei con la maggiore capacità militare e proiezione internazionale (Francia e Gran Bretagna) hanno preso la testa delle operazioni per la prima volta in 50 anni non al seguito degli Stati. Un fatto positivo cui si affiancano però due fattori negativi. Il primo: l’assenza della Germania, introversa dal punto di vista della politica estera. Il secondo: l’iniziativa franco-britannica non è stata pienamente appoggiata dagli altri paesi, che hanno voluto rivolgersi alla Nato mostrando diffidenza. Poi c’è il problema della Difesa: francesi e britannici sono gli unici ad avere mezzi credibili, ma anche loro non possono agire senza il sostegno americano. Solo alcuni anni fa le spese militari americane rappresentavano il 50% dello sforzo complessivo dei paesi Nato; oggi rappresentano il 75%. Manca perciò un coordinamento a livello europeo in materia militare. Si è parlato di uno ‘Schengen’ militare, cioè un gruppo di membri più ristretto per affrontare il tema. Sotto questo punto di vista, la collaborazione franco-britannica potrebbe essere un inizio ma servirebbe un approccio europeo e non semplicemente nazionale come invece è stato. Una lezione da trarre è che l’Europa non può illudersi di sviluppare una politica estera basata unicamente sul ‘soft power'”.
José Ignacio Torreblanca (European Council on Foreign Relations, responsabile Spagna): “L’Unione europea ha giudicato male la stabilità dei regimi, è arrivata tardi e in maniera scoordinata sulle proteste e, peggio, l’ha fatto senza coesione. In tutta onestà, le capitali nazionali sono più responsabili di Bruxelles per una politica mediterranea che si è rivelata sbagliata. […] Il paradosso da affrontare è evidente. Per dieci anni ci siamo lamentati del fatto che l’Europa fosse priva di un’istituzione ad hoc per la politica estera. L’Alto rappresentante dell’epoca, Javier Solana, si è impegnato, ma con poche risorse a disposizione e istituzioni deboli. Ora, sembra di vivere la situazione opposta. Abbiamo finalmente creato un ministero degli Esteri per l’Europa. Abbiamo destinato un budget enorme per avere un vero e proprio servizio diplomatico, e, soprattutto, abbiamo accentrato tutto il potere che prima era frammentato fra tre istituzioni (Consiglio, Commissione e la presidenza di turno). Con il Trattato di Lisbona in mano, l’Europa ha la sua trinità in atto, e l’Alto rappresentante è onnipotente. Possiamo avere le istituzioni, ma adesso sembrano mancare di una personalità che possa trainarle con forza”.
(Fonte: ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale)