Israele torna oggi alle urne per eleggere la Knesset, il parlamento israeliano. Le elezioni anticipate sono state convocate a ottobre dal Primo Ministro uscente Benjamin Netanyahu per ragioni di opportunità politica, legate all’ampio consenso di cui godeva nei sondaggi e funzionale alla formazione di un governo di ampia maggioranza.
Durante la campagna elettorale, il dibattito sui temi di politica estera e di sicurezza è stato incentrato in particolare sulla minaccia iraniana e solo parzialmente sulla politica degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania.
Nonostante l’alta frammentazione partitica (sono in lizza ben 34 partiti), il voto israeliano sembra essere tuttavia sempre più condizionato dall’astensionismo e dalle fazioni della destra religiosa. I partiti laici di centro e sinistra arrivano all’appuntamento elettorale divisi, con programmi incentrati su temi socio-economici su cui è stato difficile catalizzare l’attenzione e senza grandi opportunità di contrastare lo strapotere del cosiddetto “Biberman”, il duo formato da Netanyahu e dall’ex Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, leader di Yisrael Beiteinu. Nell’ottobre scorso, al momento della definizione della lista unica Likud-Beiteinu, la netta vittoria della coppia sembrava scontata, oggi permangono le incognite sulla composizione del futuro governo che evidenziano la difficoltà cronica del paese di formare un esecutivo stabile e durevole senza ricorrere a coalizioni ampie ed eterogenee. Il duo Netanyahu-Lieberman dovrà con ogni probabilità scendere a compromessi con altre formazioni: quelle di Yair Lapid, Tzipi Livni o il Partito laburista, ma anche con la stella nascente della destra religiosa Naftali Bennett, nonché gli altri partiti ultra-ortodossi Shas e Torah. Il rischio è quindi che Israele possa spostare ulteriormente l’asse della propria politica verso posizioni sempre più oltranziste gettando ulteriori ombre sia sul conflitto arabo-israeliano sia sul già complesso e delicato quadro regionale.