Gli attacchi di venerdì sera a Parigi hanno dimostrato che il sedicente Stato Islamico è in grado di colpire nel cuore dell’Europa. Non solo la Francia ma tutto l’Occidente si è scoperto di nuovo vulnerabile. Mentre i primi raid francesi sono stati lanciati nella notte sulla città siriana di Raqqa, ci si interroga su quale sia la risposta più appropriata ed efficace contro il terrorismo, evitando semplificazioni e reazioni sull’onda dell’emozione che rischiano di essere fuorvianti e di ostacolare strategie di lungo termine. (Fonte ISPI)
Gli obiettivi dei terroristi di Marco Lombardi, Università Cattolica
Non è Madrid. E’ Parigi. Il giorno 11 marzo 2004, 10 bombe su 4 treni fanno 191 morti a Madrid. Il giorno 13 novembre 2015, 7 attacchi militari fanno almeno 120 morti a Parigi. Simili eventi per estensione, per gravità, per impatto e per la matrice islamista. Ma quella di Parigi è un’azione militare, coordinata e condotta sul terreno, favorita con numerosi segnali veicolati dalla comunicazione di IS da mesi. Probabilmente condotta da personale appartenente alla schiera dei combattenti di ritorno, addestrati al CQB (Close Quarter Battle) nelle città siriane e indottrinati via rete: personale diffuso e presente in tutti i paesi europei, mimetizzato nelle strade in cui porta la distruzione, una minaccia operativa attiva e perdurante. Parigi non è Madrid neppure per le motivazioni dell’attacco: qui non si tratta di incidere su un processo elettorale o fare cambiare un atteggiamento politico del governo.
A Parigi si è voluto avviare il processo di conquista del territorio europeo per collocare la prima pietra della Wilaya Europa, terra del Califfato.
Non è una dichiarazione di guerra. E’ un atto di guerra. Sono ormai anni che si sta combattendo una guerra ibrida, cioè pervasiva, diffusa e delocalizzata, senza regole condivise tra i partecipanti che sono eserciti con o senza divisa, terroristi e criminali, media e tanti altri. Non abbiamo voluto vedere questa guerra finora combattuta lontano dalle nostre case. Essa è ormai arrivata a Parigi dentro all’Europa e nel prossimo futuro possiamo aspettarci che la si combatta ancor più nelle sue strade. Affrontare da questo punto di vista la questione è utile in termini di consapevolezza necessaria: immediatamente dopo gli attacchi allo stadio, ai bar e ristoranti, al teatro di Parigi si è detto che è un attacco allo stile di vita occidentale. E ciò è vero. E di conseguenza si è data una sorta di risposta automatica che suona: “ma noi non dobbiamo cambiarlo”. E ciò è parzialmente vero. Perché sarà forse utile cambiarlo come si è sempre fatto in tempo di guerra: per riaffermarne la bontà del nostro modo di vivere, oggi dobbiamo essere capaci di difenderlo, consapevoli che un nemico esiste e che lo si combatte.
Non è l’attacco di un gruppo terroristico. E’ l’uso del terrorismo come strumento della guerra ibrida. Il terrorismo, in quanto organizzazione, si pone l’obiettivo di modificare l’ordine costituito utilizzando il terrore come strumento, colpendo infrastrutture e popolazione. Lo Stato Islamico non vuole semplicemente modificare l’’ordine esistente: il Califfato persegue il processo di espansione che lo caratterizza non attraverso la modifica del sistema e l’assorbimento della popolazione, ma attraverso l’espulsione di entrambi. Gli obiettivi del Califfato vanno bene oltre a quelli del terrorismo che ha prodotto le definizioni che oggi stiamo ancora usando e che, pertanto, sono inadeguate. Ma del terrorismo esso usa gli strumenti, raffinati nella devastante capacità di colpire, in un quadro di colonizzazione dell’Occidente che non offre possibilità di negoziazione politica tra le parti: il Califfato opera la pulizia etnica e religiosa e attira nuova coloni nelle terre che conquista.
Non è un attacco alla Francia. E’ un attacco all’Europa. In questo caso non si tratta di lasciare “sola” o meno la Francia nella risposta, né si tratta di dichiarare solidarietà. Si elabori piuttosto una strategia che non può che essere europea per avere qualche possibilità di successo. Non ci sono muri possibili di contenimento della minaccia che possano essere elevati dentro all’Europa: questi muri, nel caso, solo frammenterebbero il Continente, favorendo gli attacchi di IS. La risposta deve essere coesa non sul piano morale e dichiarativo dell’unità, che resta un presupposto, ma sul piano politico, strategico e militare dell’azione.
Come può (re)agire l’Europa di Stefano Torelli
Parigi si scopre nuovamente vulnerabile alla furia cieca del terrorismo di matrice islamica e, come la Francia, tutta l’Europa deve sentirsi sotto attacco, dal momento che gli attentati di venerdì sono chiaramente diretti contro tutto il continente e non solo contro il popolo e il governo francesi. A testimoniarlo, del resto, sono le diverse rivendicazioni e dichiarazioni in rete di gruppi legati allo Stato islamico (IS), secondo cui i prossimi bersagli saranno Londra, Roma, Berlino e le altre capitali europee. Ciò che abbiamo davanti, dunque, più che un singolo attentato appare una vera e propria azione di guerra contro l’Europa e l’Occidente. Con un doppio scopo: colpire e terrorizzare l’Europa e, con un po’ di utopia in più, nel lungo termine, giungere alla “conquista” dei territori europei all’interno del sedicente Califfato. Secondo alcune interpretazioni, dunque, saremmo ormai entrati ufficialmente nella “fase due” del progetto islamista globale: l’espansione diretta in Europa. Tutto ciò appare a tratti sconvolgente, a tratti del tutto surreale, mentre alcune voci, all’interno dei confini europei, ritengono tale scenario addirittura ineluttabile, qualora la risposta non fosse adeguata, pronta ed efficace. Proprio l’individuazione di una risposta efficace quanto razionale a quanto sta accadendo sembra essere uno dei nodi più difficili da sciogliere. L’Europa deve rispondere con forza? Se sì, contro di chi? Con quali mezzi? Per quale scopo? E, per rispondere a tali quesiti, occorre prima di tutto cercare di comprendere la natura della minaccia che si ha di fronte, le sue caratteristiche, i suoi obiettivi e le sue cause profonde.
Un’azione coordinata. Prima di tutto, occorre fare una netta distinzione tra altri attacchi avvenuti in Europa e non solo (il caso dei due attentati in Tunisia, al Museo del Bardo e in un resort di Sousse, durante quest’anno, ne sono un esempio emblematico), e quelli di Parigi. Fino a ieri parte dell’opinione pubblica e delle stesse cancellerie europee (e, bisogna ammetterlo, anche di noi analisti e ricercatori) era persuasa del fatto che, qualunque attacco fosse avvenuto, fosse opera di cosiddetti “lupi solitari”. Allo stesso tempo ciò costituiva un motivo di maggiore preoccupazione, perché in quanto azioni solitarie erano difficilmente prevedibili, ma anche di relativa tranquillità: non esiste un piano organizzato su larga scala. Al contrario, gli attacchi di Parigi, con due attentatori kamikaze nei pressi dello stadio di calcio dove giocava la nazionale francese ed era presente il presidente francese Hollande, sette sparatorie contemporanee in punti diversi della città, una decina di uomini armati simultaneamente in azione, un teatro assalito da uomini ben equipaggiati, non lasciano spazio a molti dubbi: si è trattato di un’azione ben preparata e coordinata. E’ probabile che la regia fosse l’IS, così come che i perpetratori fossero foreign fighters di ritorno, anche se su questo ancora si attendono conferme. Ma, in ogni caso, il dato certo è che questa volta vi fosse una struttura organizzativa dietro gli attacchi.
Risposta agli attacchi in Siria o azione già prevista? Proprio per il fatto che si trattasse di un’azione che, sicuramente, ha richiesto del tempo per poter essere organizzata, risulta perlomeno difficile collegare con certezza gli attacchi di Parigi a fatti circostanziali come l’imminente visita del presidente Rouhani in Europa (peraltro cancellata subito dopo gli attacchi), o i raid aerei della Francia e della coalizione anti-IS a Raqqa, capitale del sedicente Califfato in Siria. Allo stato attuale, gli uomini di al-Baghdadi possono trovare pressoché in ogni momento dei “buoni pretesti” per compiere un attacco contro l’Europa. Ciò sembrerebbe avallare la tesi secondo cui l’IS si sente ormai in guerra con l’Europa e, a differenza di singoli attentati previsti con un timing particolare riferito a determinati avvenimenti (appuntamenti elettorali, atti di guerra, manifestazioni, …), agisce in maniera quasi indipendente dal corso ordinario degli eventi. Ciò è chiaramente più spaventoso per gli obiettivi ed è indice di un incancrenirsi della situazione, che sembra non prevedere più meccanismi causali, ma le cui dinamiche sono ormai stabilite in maniera autonoma.
Il Califfato del terrore. Alla base degli attacchi e della radicalizzazione degli individui che ne sono responsabili, vi è – tra gli altri fattori – la situazione determinatasi in Siria e Iraq. Il sedicente Califfato costituito dall’IS è ormai una realtà fattuale da un anno e mezzo. In questo lasso di tempo, gli uomini di al-Baghdadi hanno saputo mettere in moto una macchina organizzativa, amministrativa e propagandistica molto efficace, che non ha trovato dall’altra parte adeguate misure di reazione e contromosse efficaci. A differenza di quanto accaduto nei confronti dell’Afghanistan dei talebani nel 2001 o dell’Iraq nel 2003 (in cui, peraltro, la comunità occidentale commise un enorme errore di cui ancora sta scontando le conseguenze), la risposta dell’Occidente, Europa in primis, è stata debole. Nonostante divenisse sempre più chiaro che l’IS, dai territori controllati a cavallo tra Siria e Iraq, stesse fomentando e foraggiando un nuovo tipo di guerra (anche e soprattutto propagandistica, la cui arma principale è il suo messaggio universale) contro il mondo – islamico e non –, si è preferito non rispondere e lasciare che gli eventi andassero secondo il loro corso, nella errata convinzione che tutto sarebbe rimasto circoscritto all’area mediorientale. In ciò, gli stessi attori regionali, dalla Turchia all’Arabia Saudita, hanno commesso lo stesso errore, trovandosi a loro volta vittime e obiettivi dell’IS. Nel timore di cosa sarebbe potuto accadere dopo, si è deciso di non agire tempestivamente, se non a parole o con raid aerei dalla dubbia efficacia. Le conseguenze, oggi, sono sotto i nostri occhi e, sebbene per alcuni versi possa sembrare ormai una risposta tardiva, occorrerebbe intervenire in maniera unitaria ed efficace in Siria e Iraq e togliere terreno sotto i piedi del Califfato, qualora si voglia cominciare a dare un’inversione di tendenza agli avvenimenti.
I foreign fighters. I dati parlano chiaro, e lo fanno da almeno due anni: le file dell’IS sono piene di persone giunte da ogni parte del mondo, dall’Asia orientale, ai Caraibi, dai paesi arabi all’Europa. Nel 2012, il numero di combattenti stranieri presenti in Siria e Iraq si aggirava intorno ai 3.000. Oggi, secondo alcune stime ufficiali statunitensi, sarebbero più di 25.000: un dato quasi decuplicato in soli tre anni. Di questi, ben 5.000 sarebbero provenienti dalla Tunisia, il Paese che ne fornisce di più di tutti, mentre la Francia è il primo Paese europeo, in termini numerici assoluti, ad essere interessata dal fenomeno. Più di 1.550 francesi combattono in Iraq e Siria (secondo alcune fonti di intelligence di Parigi il numero potrebbe essere addirittura il doppio), 700 arrivano dal Regno Unito e altrettanti dalla Germania. Il dato è semplice, quanto sconvolgente, da analizzare: la situazione è arrivata al punto tale che migliaia di cittadini europei sono potenzialmente in grado di tornare in Europa, addestrati e radicalizzati, e colpire. Gli attacchi di ieri a Parigi potrebbero esserne un esempio.
Che fare, dunque? Prevenzione, (re)azione e razionalità dovrebbero essere le linee guida della risposta. Gli attacchi di Parigi hanno dimostrato, ancora una volta, quanto sia difficile intervenire per prevenire alcuni tipi di azioni. Va sottolineato, allo stesso tempo, come le intelligence di diversi Paesi europei hanno dichiarato in varie occasioni di aver sventato in anticipo azioni terroristiche in corso di pianificazione. Qualcosa, dunque, si sta già facendo, ma probabilmente non è ancora abbastanza per fermare il trend. Dal punto di vista della (re)azione, come già sottolineato, il fulcro di tutti gli sforzi dovrebbe essere ancora il sedicente Califfato in Siria, Iraq, ma anche in altri territori in cui appare ormai radicato. A tal proposito, la mente va direttamente a pochi chilometri dalle coste italiane, in Libia, dove il contesto di conflitto civile ha favorito l’emergere di cellule legate direttamente all’IS. Se da un lato è vero che si è già instaurato un meccanismo di violenza e un circolo vizioso, dato anche l’immobilismo occidentale nell’affrontare in maniera seria e strutturata la minaccia dell’IS, d’altro canto è pur vero che finché il Califfato continuerà a fungere da altoparlante di propaganda e campo di addestramento per gli aspiranti jihadisti, la spirale non potrà essere fermata. Ricorrendo a una metafora, si potrebbe dire che i rami secchi possono, anche con difficoltà, essere tagliati, ma finché le radici continueranno ad essere solide, si continueranno a produrre altri frutti. Infine, razionalità. E’ dovere e responsabilità dei governi e della classe politica europea non alimentare un inutile e controproducente odio verso le comunità musulmane presenti in Europa. Ciò vale per i milioni di cittadini che quotidianamente vivono nelle nostre città in maniera del tutto integrata, così come per i rifugiati che giungono dai paesi musulmani. Nell’uno e nell’altro caso, si tratta di vittime del radicalismo islamico: i primi subiscono gli effetti della propaganda islamofoba che rischia di radicarsi nell’opinione pubblica europea; i secondi, è bene non dimenticarlo, spesso fuggono da quegli stessi uomini che, ieri, hanno portato il terrore nel cuore dell’Europa. Indicarli come “nemici” rischierebbe solo di crearne altri.
Stefano M. Torelli, ISPI Research Fellow