La nostra sensibilità ai temi ambientali è aumentata tantissimo, negli ultimi tempi. Il cambiamento climatico è sempre di più una realtà, vicina e tangibile, e siamo tutti chiamati a fare la nostra parte. Non solo i giovani, per i quali è in gioco il futuro, ma anche noi signore e signori non più giovani: per noi si tratta del futuro più vicino, ma anche del destino e della vita dei nostri figli e nipoti, di quanto ci è di più caro, quindi.
Paradossalmente, l’industria della moda, che è una delle più inquinanti, raramente viene citata e richiamata. È stata sotto accusa, anni fa, per le pratiche di sfruttamento della manodopera nei Paesi in via di sviluppo, e occasionalmente lo è per qualche produzione particolarmente inquinante.
Ma tutti sembriamo poco consapevoli di far parte e di alimentare un sistema “usa e getta” non troppo dissimile da quello della plastica. La moda low-cost, che tutti compriamo, è per lo più fatta di materiali sintetici, scadenti e non riciclabili. Dato che tutto costa poco, ne compriamo tanto. E negli ultimi 10/20 anni, secondo le ricerche del movimento Fashion Revolution (che, con campagne come “Who made my clothes”, cerca proprio di sensibilizzarci al tema), abbiamo tutti una quantità di vestiti di gran lunga superiore alla nostra capacità fisica di indossarli.
I vestiti che non vogliamo più in genere li mettiamo nei bidoni gialli della Caritas. Ma non tutti sono riutilizzabili. Soprattutto quelli che vengono dalle catene low-cost. Vengono portati nei mercati, prima i nostri e poi quelli dell’Africa e dei Paesi più poveri. Ma se non trovano uno sbocco in quei contesti vanno in discarica. E ce ne vanno tanti, di vestiti, nelle discariche. Dove, se non vengono bruciati andando a inquinare l’aria, restano lì per chissà quanto.
E vi dirò che quando Legambiente, nelle giornate di “Puliamo il mondo”, va lungo le strade e i fiumi a scovare i rifiuti nascosti, sempre più spesso trova capi di abbigliamento abbandonati alla stregua di sacchetti o rifiuti qualsiasi.
E nonostante i “green carpet” della Settimana della Moda, nonostante ci siano produttori attenti all’ambiente, nonostante alcuni grandi marchi si impegnino a studiare materiali meno inquinanti e a riciclare la plastica già esistente, il problema è grande.
Per fortuna si stanno affermando i negozi second hand e quelli di vintage.
Certo il vintage c’è da parecchio tempo, molti negozi di antiquariato e modernariato hanno un reparto di abiti e accessori. Ma un certo vintage è così di lusso che costa più del nuovo! Sono capi direi da collezionisti, pezzi unici, alta moda, abiti da sera, borsette gioiello.
Invece c’è un vintage più abbordabile, di cose spesso non firmate, ma di sartoria (quando non c’era il pret-à-porter e si andava abitualmente dalle sarte), fatte con tessuti durevoli e che non esistono più. Oppure di stilisti non famosi, sconosciuti. Lì si può attingere per trovare capi originali, insoliti. Kate Moss, la famosa modella inglese nota in tutto il mondo per il suo stile, ha recentemente raccontato a “The Guardian” la sua passione per il vintage e come alcune delle sue mise più fotografate siano state comprate in negozietti specializzati nello svuotamento di armadi e cantine di più o meno facoltose signore. Soprattutto se si cerca un abito elegante, un cappello, un foulard di vera seta, una stola, in uno degli ormai tantissimi negozi di vintage si può trovare qualcosa di unico e diverso.
E poi ci sono i negozi second hand. Spesso si trovano insieme vintage e second hand, e i due concetti stanno diventano sempre meno distinguibili, anche perché già gli anni Ottanta sono vintage. Tra poco lo saranno anche i Novanta…
Ovviamente c’è una grande varietà: ci sono boutique che selezionano capi o molto particolari o di lusso, altre che vendono un po’ di tutto; alcuni negozi sono legati a Enti di beneficienza o basati su un modello di business solidale, dando lavoro a immigrati o persone in difficoltà; altri sono basati sullo scambio, vi si portano le proprie cose, che vengono valutate e “pagate” con buoni acquisto. Complessivamente c’è una bella scelta, e con un po’ di occhio si può essere molto chic senza spendere molto e senza danneggiare l’ambiente.
A me poi piace anche immaginare le storie che ci sono dietro i vestiti: chi li ha messi prima di noi, come ci si sentiva, perché li aveva scelti. Perchè anche quello che indossiamo si porta dietro un po’ di noi e della nostra vita.
E trovo che la circolarità di questo riutilizzo delle cose, del loro passare di mano in mano, sia qualcosa di molto umano e molto caldo. Di sicuro molto più umano e caldo del semplice consumo!
Ecco, penso che lo chic sostenibile sia la vera nuova frontiera della moda.
Se volete dirmi cosa ne pensate, sapete dove trovarmi.
Spero di avervi dato qualche buona idea, e vi do appuntamento a dicembre!