Una volta padroneggiata una fotocamera, la si potrà utilizzare non solo per rappresentare la realtà che ci circonda, per cogliere i fenomeni che ci colpiscono. Come abbiamo visto nel sesto articolo, la fotocamera potrà essere lo strumento per evocare sensazioni, per rendere effetti che abbiamo in mente e trasmetterli a chi osserverà l’immagine.
Ne abbiamo anticipati alcuni: nel quarto articolo quando si è esaminata la sovra e sottoesposizione della fotografia e il “panning” e nel sesto articolo quando si è esaminata la prospettiva, il “punto di fuga” e la “regola dei terzi”.
Esistono anche altri modi: dall’uso di determinati obiettivi, di filtri fotografici, all’impiego di tecniche di ripresa, al fotoritocco.
Partiamo dal fotoritocco: ha grandi effetti ed è largamente impiegato. E’ un argomento molto dibattuto, spesso in termini polemici.
A ben vedere non è strettamente “fotografia” ma “post produzione”, uso di software su immagini fotografiche: così come usare un foglio di calcolo è certamente utile ma non è conoscere la matematica, non ce ne occuperemo.
Il grandangolare
Abbiamo affrontato l’obiettivo fotografico nel secondo e terzo articolo: oggi entreremo più in dettaglio di uno di questi: il grandangolare. Non per le sue caratteristiche ottiche, ma per gli effetti di composizione che consente di ottenere.
Oggigiorno la dotazione base di una fotocamera reflex digitale con sensore APS-C prevede di norma uno zoom 17/55 millimetri – in termini di “full frame” tra i 25 e gli 85 millimetri circa – cioè un obiettivo che ha un angolo di campo (teniamo sempre presente che è l’angolo di campo, non la Lunghezza Focale, a determinare il tipo di obiettivo) che spazia tra un grandangolare ed un teleobiettivo da ritratto.
Vediamo le caratteristiche, alcune positive altre meno, di un obiettivo grandangolare:
- ha un maggiore angolo di campo.
La conseguenza è che aumenteranno i soggetti inquadrati;
· dilata le distanze.
Questo farà sì che i soggetti inquadrati appariranno più lontani di quanto effettivamente sono, e che le distanze tra i soggetti appariranno maggiori.
Ad esempio nell’immagine a fianco – scattata con una Lunghezza Focale di 18 mm. con un sensore APS-C, corrispondenti a 27 mm. su un sensore “full frame” – la distanza tra il tavolino e l’edificio sullo sfondo è di circa venti metri, mentre appare decisamente superiore;
· fa apparire i soggetti vicini di dimensioni ancora più rilevanti rispetto a quelli lontani. Aumenta cioè l’effetto della prima regola della prospettiva (sesto articolo) dando così maggiore importanza ai soggetti in primo piano;accentua l’effetto di convergenza delle linee verso il punto di fuga, cioè della quarta regola della prospettiva (sesto articolo) e, in generale, gli effetti prospettici; - ha una elevata Profondità di Campo (terzo articolo) e quindi una maggiore facilità di messa a fuoco.
Se tutti i soggetti saranno a fuoco, la sfocatura non potrà essere utilizzata per attrarre l’attenzione su uno di loro: non potrà essere utilizzato il c.d. “fuoco selettivo” (terzo articolo) o l’“Effetto Bokeh” (di seguito);
- distorce le linee, in particolare le linee sui bordi del fotogramma.
Si tratta di un difetto che di norma è ben corretto dagli obiettivi in commercio: deve però essere considerato attentamente in fase di acquisto poiché sarà poi difficilmente correggibile con software di fotoritocco.
Inoltre usando un grandangolare è opportuno non posizionare figure umane sui lati del fotogramma, le cui proporzioni sono intuitive all’osservatore e potrebbero risultare anomale a prima vista;
- distorce la profondità di soggetti molto vicini.
E’ il cosiddetto “effetto nasone”, a ben vedere anch’esso riconducibile alla prima regola della prospettiva, antipatico soprattutto se si verifica su figure umane;
- riduce l’effetto di un filtro polarizzatore o, peggio, lo farà notare solo su alcune zone del fotogramma.
Questo perché i soggetti inquadrati aumentano, e la luce incidente è meno omogenea su di loro: il filtro polarizzatore inevitabilmente avrà effetti diversi sulla luce riflessa da ciascun soggetto. Ad esempio parti del cielo risulteranno più scure di quanto ci si aspetta;
· è più esposto al rischio di “lens flare”, cioè quel fenomeno – cui sono soggetti tutti gli obiettivi – che deriva dalla illuminazione laterale, solitamente solare o anche di sorgenti molto luminose, e che si manifesta con punti luminosi a stella o con chiazze luminose dalla medesima forma del Diaframma (immagini a fianco);
- infine un grandangolare, soprattutto se “spinto”, può vignettare il fotogramma cioè scurirlo ai bordi.
I filtri fotografici
Mentre l’obiettivo grandangolare modifica, per così dire, la “geometria” dell’immagine, i filtri fotografici modificano la composizione della luce che entra nell’obiettivo.
La prima osservazione d’obbligo è che la introduzione della tecnologia digitale nella fotografia ha “spostato il luogo” dove i filtri vengono impiegati.
Nella fotografia non digitale i filtri sono ampiamente utilizzati in riprese in bianco e nero; alcuni filtri vengono usati anche in fase di stampa della fotografia – cioè non sulla fotocamera ma sull’ingranditore – sebbene in misura più contenuta.
Con la fotografia digitale i filtri – tranne il filtro polarizzatore – sono comandi nella fotocamera o compresi in software di fotoritocco.
Vediamo il principio di funzionamento di un filtro cromatico in una immagine in bianco e nero: in sintesi un filtro di un dato colore ottiene l’effetto di schiarire il corrispondente colore e di scurire il colore all’estremo opposto dello spettro del visibile. Li abbiamo visti nel primo articolo.
In una immagine in bianco e nero un filtro rosso schiarirà il rosso – ad esempio il colore delle labbra e della pelle – e scurirà il blu e il verde – in un paesaggio nuvoloso l’azzurro del cielo verrà scurito mentre il bianco delle nuvole non verrà variato e si otterrà così una drammatizzazione della scena.
Un altro filtro molto utilizzato è il filtro giallo, che ha effetti similari, ma più attenuati al filtro rosso ed è anche utile per ridurre la foschia.
Con l’avvento della fotografia digitale un effetto simile all’uso dei filtri colorati è consentito in fase di ripresa tramite la saturazione – l’intensità – di uno specifico colore, come pure per la eliminazione del colore dominante: soggetti illuminati da una lampada ad incandescenza appariranno tendenzialmente gialli, se la lampada fosse al neon la dominante sarebbe blu.
Resta interessante il filtro polarizzatore.
Se ritorniamo per un attimo al primo articolo, quello nel quale si descrivevano le caratteristiche della luce, si è visto che ha comportamenti da particella, ma anche da onda elettromagnetica, e che l’occhio umano vede quando la sua lunghezza è compresa in un dato intervallo.
Immaginiamo di osservare un edificio dalla nostra finestra: la luce che viene verso noi avrà onde “in verticale”, ma anche onde “in orizzontale” e quindi infinite onde in tutti gli altri piani diagonali (le righe blu in alto a sinistra della immagine a colori che segue) Quindi la luce è un fascio di onde non una sola onda.
Bene. Il filtro polarizzatore ha una capacità: di tutti quei piani d’onda che vengono verso di noi ne lascia passare solo uno (in linea teorica; in pratica, per effetto delle necessità di produzione pochi più d’uno).
Se combiniamo due filtri polarizzatori abbiamo la dimostrazione pratica che la luce è una onda.
Disponiamo due filtri polarizzatori come vengono visti dall’alto nella immagine di sinistra in modo tale che si sovrappongano solo in parte e siano orientati di 90° uno rispetto all’altro.
Nella prima immagine il nostro edificio sarà alla sinistra del primo filtro ed il nostro occhio, o la nostra fotocamera, alla destra del secondo filtro.
Ora osserviamo l’edificio tramite i due filtri (dal punto indicato come “posizione della fotocamera”) e ci apparirà come nella seconda immagine.
Vedremo la zona:
- esterna ai due filtri inalterata: è la luce naturale che avrà infiniti piani d’onda (in blu);
- all’interno di un filtro polarizzatore passeranno solo le onde sul piano rosso, mentre nell’altro passeranno solo le onde sul piano verde. Il piano rosso e il piano verde sono perpendicolari tra loro perché abbiamo orientato i due filtri a questo fine.
La luce che passa per ciascun filtro sarà visibile, anche se con minore luminosità: questo è dovuto alla riduzione di luminosità di circa 2 Stop;
- all’interno di entrambe i filtri – quella centrale – è oscura.
Questo fenomeno è dovuto al fatto che la luce uscita dal primo filtro è polarizzata su un solo piano (quello rosso) mentre il secondo filtro è ruotato di 90°, quindi lascerà passare solo il piano verde, non quello rosso, né tutti gli altri.
Il filtro polarizzatore è montato su una ghiera, che consente di ruotarlo: in questo modo viene determinato quale sarà il piano d’onda che passa e effetto è subito visibile nell’oculare.
Anche la luce di un monitor televisivo o di un personal computer è polarizzata: in altri termini è come fosse già passata per il primo filtro polarizzatore.
L’immagine di sinistra è stata scattata ad un monitor di personal computer: in basso si può notare un filtro polarizzatore orientato in modo da far passare la luce e quindi da rendere visibile l’immagine sullo schermo.
A destra si vede la stessa immagine dove però il filtro polarizzatore è stato ruotato di 90° e … la luce – già polarizzata dal monitor – non passa. Si … ma al fotografo cosa interessa? Molto.
Ad esempio la luce dei riflessi è polarizzata; la luce riflessa dalle gocce di vapore nel cielo o dall’erba di prima mattina è polarizzata.
Si potranno eliminare i riflessi ed ottenere immagini del fondo marino, cieli azzurri che diventeranno blu profondo e prati ancora più verdi, ad esempio nelle immagini a fianco.
Con una precauzione. In commercio esistono due tipi di filtri polarizzatori: quelli di “vecchia generazione” (contrassegnati dalla sigla “PL”) nei quali la luce polarizzata è su un solo piano – è l’esempio fatto da noi – ed i filtri “circolari” (“CPL”) dove l’unico piano di luce che viene fatto passare si comporterà poi come una scala a chiocciola.
Di norma è bene utilizzare filtri CPL poiché non danno problemi con obiettivi autofocus.
L’Effetto Bokeh
Il nostro occhio ha gli strumenti per porre attenzione su uno in particolare dei tanti soggetti che osserva: lo fa, come abbiamo visto nel secondo articolo, concentrando un elevato numero di coni in un punto della retina, la fovea centrale. Questo consente di fissare l’attenzione su un punto senza perdere di vista il resto del campo visivo: abbiamo quindi la cosiddetta “coda dell’occhio”.
Una fotocamera digitale non può essere così sofisticata: i pixel sono distribuiti sul sensore in modo uniforme. E non può che essere così.
Quindi come può il fotografo guidare l’attenzione dell’osservatore su un punto e solo su quello?
I modi sono molteplici: dall’uso delle regole della prospettiva al posizionamento del soggetto in particolari punti del fotogramma, ad esempio utilizzando la “regola dei terzi”, argomenti visti nel sesto articolo.
Sono usi intelligenti della “geometria” dell’immagine.
Ma anche l’ottica viene in aiuto.
Osserviamo ad esempio le due immagini che ritraggono un fiore.
La prima ritrae il fiore insieme ai restanti: è stata scattata da circa 50 centimetri di distanza con un obiettivo con Lunghezza Focale di 55 mm. su un sensore APS-C (corrispondenti a 82 millimetri su un sensore “full frame”), cioè un tele da ritratto – che di per sé non ha grande Profondità di Campo -, con un Tempo di Posa di 1/30 di secondo ed il Diaframma chiuso a 36.Diaframma così chiuso ha portato ad una Profondità di Campo talmente elevata da rendere nitidi anche gli altri fiori intorno e sullo sfondo: il risultato è si verifica un “affollamento” di fiori che non li rende distinguibili, cioè a dire che non esiste un fiore sul quale l’osservatore sarà portato a concentrare la propria attenzione.
La seconda immagine ritrae il medesimo fiore, scattata sempre da 50 centimetri di distanza e con la medesima Lunghezza Focale: il Tempo di Posa è però stato modificato a 1/125 di secondo e l’apertura del Diaframma a 5,6.
Il Diaframma così aperto ha portato ad una Profondità di Campo pressoché nulla, con il risultato di rendere visibile solo il fiore centrale, quello messo a fuoco: il resto dell’immagine è sfocato e l’osservatore non avrà altro sul quale concentrare la propria attenzione.
Se fotografassimo un soggetto, ad esempio un bambino, avendo cura di curare anche l’aspetto della combinazione dei colori messi a fuoco rispetto a quelli che fungeranno da sfondo potremmo ottenere risultati ancora più interessanti.
L’effetto Bokeh – “sfocatura” in giapponese – è quindi basato essenzialmente sulla gestione estrema della Profondità di Campo.
Le linee ed i piani
Abbiamo già sottolineato i limiti che una fotografia ha per il fatto di essere bidimensionale. Proprio per questa ragione consente però di utilizzare appieno una caratteristica di molte immagini: la presenza di linee continue.
Le due immagini a lato, ad esempio, ritraggono lo stesso edificio: una è a colori, l’altra in bianco e nero e sono scattate da due angolazioni diverse.
La prima osservazione è che eliminare il colore sottolinea due fattori: le forme e la luminosità.
L’ideale per immagini di architettura, di alcuni paesaggi, di dettagli di oggetti e di persone.
La prima immagine mostra un edificio comune, non molto diverso da altri; nella seconda l’area scura – il cielo, scurito con un filtro polarizzatore – termina sull’angolo inferiore sinistro e la parte inferiore dell’edificio – visibile anche nella prima immagine – non è “disturbata” dalle finestre, è luminosa e termina sull’angolo opposto. L’effetto ottenuto è quello di un edificio avveniristico. L’immagine appare divisa in due verticalmente dallo spigolo dell’edificio.
Insomma, il fotografo ha “giocato” con le linee e la luminosità.
Va tenuta presente una considerazione: poiché posizionare linee in angoli del fotogramma è una pratica diffusa, non è in sé stesso sufficiente per ottenere una immagine davvero interessante. E’ necessario inserire altri elementi di rilievo.
Abbiamo già visto che la profondità – o meglio la sensazione della profondità – non è completamente persa per il fatto che una fotografia sia bidimensionale: nella immagine del lago del sesto articolo la profondità assumeva una importanza decisiva.
Un altro modo è quello di concepire l’immagine come una sequenza di piani. Come farlo? Guardandoli per la loro luminosità e per la presenza o meno di colori.
L’immagine in alto, ad esempio, ritrae un tramonto in montagna.
Il fotografo ha deciso di creare un primo piano completamente oscuro nella parte inferiore con la silhouette di una pineta: ha sottoesposto la ripresa. Ha contravvenuto cioè alla quinta regola della prospettiva (oggetti meno luminosi, meno definiti, meno colorati sono più lontani). Ma era aiutato da quello che in letteratura si indica come “extratesto”, cioè da ciò che non deve essere spiegato per essere creduto: le nubi sono sempre più lontane di un albero.
Gli altri piani sono quindi, nella parte superiore, le nubi ed al centro il cielo – per definizione ancora più lontano di qualsiasi nube -: piani i cui colori contrastano l’uno con l’altro.
Il cielo assume una profondità che altrimenti non avrebbe avuto, indipendentemente da qualsiasi punto di fuga.
Un altro esempio di utilizzo di piani è l’ultima immagine.
La scala in basso a destra, la scala sulla sinistra ed i finestroni sul fondo hanno una luminosità maggiore della restante parte dell’immagine, creando un effetto di profondità dall’angolo inferiore sinistro all’angolo superiore destro.
Un altro esempio di utilizzo di piani sono le riprese di catene montuose al tramonto, anch’esse in luminosità crescente verso il cielo.
Ed ora, non resta che sbizzarrirsi.