Gli allievi del corso di fotografia (docente Enrico Mariotti) e di scrittura (docente Lidia Acerboni) dell’Humaniter di Milano hanno lavorato insieme e hanno prodotto testo e foto, interprentando scambievolmente. Ecco i piacevoli risultati:
Lavoro n. 1: dal racconto alla foto
Una bolla di sapone a Montmartre
Mio padre è l’aria. L’acqua mia madre. Anche se monsieur Lepetit, che tutti noi conosciamo come un fallito uomo di spettacolo, racconta un’altra storia e sostiene, bugiardo, di essere lui il mio vero padre. Per pochi centesimi s’inventerebbe qualunque cosa. Allontanandomi da lui io lo guardo, ma non lo disprezzo. Anzi lo ringrazio. Perché oggi mi ha reso finalmente libera.
I cavallucci della giostra mi salutano dondolandosi alla musica dell’organetto. E mentre salgo verso le guglie del Sacre Coeur mi specchio nei colori del cielo. Una farfalla mi fa compagnia e mi sento felice per le risate dei bambini che si rincorrono sulle gradinate. Chissà cosa pensano quei bambini che giocano sulla scalinata? E quale storia sta scrivendo quel signore con la barba che è seduto al tavolino del caffè in Place St.Pierre ai piedi di Montmartre?
Potrei credermi regina dello spazio infinito, se non fosse per quel piccione assassino che mi viene incontro. Ahimè! Com’è breve la vita. Preparate il mio funerale.
Lavoro n. 2: dalla foto al racconto
Terra di sotto
Lo sapeva che sarebbero arrivati, lo aveva sempre saputo. Era scritto nei tanti segni del cielo e nelle ossa bianche del dingo.Ed ora era lì, davanti a lui, galleggiava minacciosa eppur maestosa, con l’albero di maestra che puntava alto al cielo in una fitta ragnatela di corde, nell’immenso mare azzurro di quella Terra di sotto.Non aveva paura, il destino percorre sempre il suo corso inesorabilmente. Lo sapeva che portava morte e distruzione per il suo popolo, ma non aveva pauraUn antico proverbio aborigeno dice: Siamo tutti visitatori in questa epoca e in questo luogo.
Siamo solo di passaggio. Il nostro scopo qui è osservare, imparare, amare … e poi ritorniamo a casa. Anche loro sarebbero tornati a casa. Ma con l’anima meno bianca. (Daniela Gervasoni)
Il capitano
Avevano navigato giorno e notte, senza tregua, nessuno aveva il coraggio di chiedere dove o perché. Una sera in lontananza una macchia nera, un turbine, dopo poco l’inferno. Il cielo si fece opaco, l’aria pungente, il mare ribolliva, il vento urlava tra gli alberi del veliero gonfiando le vele. C’era fermento da poppa a prua. Il fasciame scricchiolava. Poi il tifone risalì verso il cielo. Quando le onde si addolcirono, la ciurma cadde esausta sul pontile rimanendo come in trance. Sulla superficie dell’acqua brillava la prima luce dell’alba. Il capitano con il volto bruciato dal sole scrutava l’orizzonte per cercare la sua l’isola . Ed ecco il vulcano assopito, le palme, la spiaggia di sabbia rosa.
– Gettate l’ancora, ordinò
Il suo corpo era un groviglio di nervi, si tuffò nell’oceano braccia e gambe si erano fatte pesanti, si lasciò cullare fino alla spiaggia e rimase esausto in un turbine di sogni. ( Adele Cavalleri)
Giovanni
Gli era rimasto lo stesso sguardo di quando, giovane professore, riusciva a zittire i suoi ragazzi solo guardandoli. Ora lo puntava con la stessa intensità verso l’orizzonte, mentre se ne stava, ancora dritto come un fuso, sulla banchina, al porto. Gli pareva fosse passato un secolo da quando “per raggiunti limiti d’età” aveva dovuto lasciare l’insegnamento. Aveva scelto di vivere la scorta di anni che gli rimanevano (così la chiamava) al mare. Lo conoscevano tutti in quel piccolo paese di pescatori e lo lasciavano spesso salire sulle imbarcazioni, anche in assenza dei proprietari perché Giovanni (così si chiamava) aveva una passione speciale per le barche e per tutto ciò che stava a contatto con l’acqua. Le sue mani nodose diventavano lievi quando toccava il legno, sfiorava le vele e si aggrappava alle corde. Un giorno Saverio, il suo amico e compagno di lunghe partite a scopone, lo fotografò a sua insaputa (aveva sempre odiato farsi fotografare….la pensava come certe tribù di indios sul farsi riprendere) mentre era su una di quelle barche attraccate al molo. L’amico decise comunque di mostrargliela sperando che non si arrabbiasse troppo. L’immagine gli rimandava un viso diverso da quello che conosceva, gli apparve un vecchio coi lineamenti marcati, molto simile ad un pellerossa dallo sguardo ancora intenso sotto le folte sopracciglia; le fitte rughe sembravano confondersi con le sartie dell’imbarcazione, quasi a tracciare una rete che avvolgeva il suo viso in un unico ricamo, come se lui e la barca fossero un’unica cosa. (Daniela Montanari)
Il navigatore
Era una giornata grigia, il vento freddo sferzava le cime degli alberi al di là della spiaggia deserta, il mare era blu scuro, quasi nero, con cavalloni schiumosi che si infrangevano sugli scogli.Il ragazzo – giovane, forse 18 o 20 anni – era sdraiato sulla sabbia umida, forse non sentiva il freddo perché era vestito con jeans, maglione nero, senza scarpe né berretto, giaceva immobile, occhi chiusi e braccia e gambe allargate.Era vivo, perché si vedeva chiaramente il petto alzarsi e abbassarsi. Forse svenuto?No. Sognava. Amava il mare e il suo desiderio più grande era imbarcarsi su una nave a vela e solcare gi oceani magari facendo il giro del mondo.Aprì gli occhi e guardò il cielo, le nuvole grigie formavano tante figure, ecco, adesso vedeva una grande nave con tanti alberi altissimi e con le vele al vento e sopra di essa, enorme, incombeva un volto bruciato dal sole, naso grosso, capelli lunghi, barba folta, lo sguardo intenso e lontano, a scrutare l’orizzonte in attesa di una nuova terra da scoprire. Un grande navigatore, come voleva diventare lui. Ma le nuvole si spostavano veloci, diventarono nuvoloni neri pieni di lampi, le figure si dissolsero ed iniziò a piovere forte. Il ragazzo si alzò e corse via. (Annalisa Lago)
Il capitano Gregory
Immerso nei suoi pensieri, si rivede sul cargo nell’oceano immenso poco prima del disastro che avrebbe segnato per sempre la sua esistenza. Una tempesta tropicale più forte di quelle a cui erano assuefatti li aveva sbattuti contro le rocce poco lontano dall’isola di Cuba ed erano colati a picco. Lui e il resto dell’equipaggio si erano salvati, ma il secondo ufficiale ed il cuoco di bordo non ce l’avevano fatta. I loro corpi non erano più stati ritrovati. Lui, capitano di lungo corso, si era sentito l’unico responsabile di quell’immane tragedia. Da allora la sua vita era cambiata: passava buona parte delle giornate nelle bettole del porto a ubriacarsi, sperperando i pochi soldi che riusciva a racimolare come aiutante occasionale sui pescherecci. Quando io, giovane ed inesperta assistente sociale, lo conobbi, era ubriaco fradicio e usciva malconcio dall’ennesima rissa. Seduta sulla panchina, lo osservo a lungo prima di trovare la forza di allontanarmi dall’istituto di igiene mentale dove è rinchiuso dal giorno in cui, accecato dall’alcol, accoltellò un pescatore. Da dietro la finestra mi fissa muto: le intemperie della vita e del tempo hanno scavato rughe profonde sul suo viso grosso e squadrato, bruciato dal sole. Non ha più di cinquant’anni ma ne dimostra di più. La barba e i capelli spruzzati di bianco, incolti e disordinati gli donano un’aria austera di vecchio saggio. Gli occhi, che tiene socchiusi per il riflesso della luce sul vetro, sembrano scrutare un punto lontano all’orizzonte con il fiero e risoluto cipiglio del navigatore che era stato. Questa mattina mi ha confidato la sua storia. E’ la prima volta che parlava dopo anni di silenzio. ( Elisabetta Faini)
Il pescatore
Anche quella notte Nicola, nonostante fosse prevista una burrasca, si era alzato e si era diretto al porto. La pesca era l’unico mezzo di sostentamento che aveva. Era stato il suo lavoro da sempre e pur in età avanzata continuava a farlo. Pescava con le reti di profondità e in quella notte di settembre era uscito solo, era intenzionato a prendere pesci piccoli, totani, granchi, gamberi e forse qualche aragosta se avesse avuto più fortuna. Aveva una vecchia barca di legno, ben tenuta, era il suo gioiello, lì si sentiva al sicuro. Il mare era calmo, le reti erano state gettate, e il vecchio si sentiva in pace, fu proprio in quell’attimo che il vento si alzò e, come succede in mare, lo scenario improvvisamente cambia. La tempesta sta per arrivare, le onde si gonfiano, la barca oscilla paurosamente, ma il pescatore abituato alle avversità non si intimorisce, con prontezza si accinge a raccogliere le reti ma qualcosa si è impigliato vicino al motore lui fa di tutto per disincagliarla ma non ha abbastanza forza, la barca oscilla paurosamente, Nicola perde l’equilibrio. Il suo volto segnato dal sole e dalle intemperie è ora sulla prima pagina del giornale locale. (Germana Lodigiani)
Il varo
Stava sempre davanti alla finestra a guardare i lavori del cantiere e ripensando al giorno del varo della nave che aveva contribuito a costruire.Era stato un impegno durissimo, gli era costato tempo e fatica.Aveva dovuto rinunciare alla sua famiglia a lungo, standole lontano e non vedendo neppure crescere i suoi figli.Il risultato però era stato stupefacente, quello che all’inizio sembrava una catasta di legna senza senso, poco alla volta era diventata una infrastruttura di nave.Quando coprirono i tralicci con il legno trattato, curvato, levigato e dipinto, restarono tutti senza parole.Gli sarebbe piaciuto che quel momento si ripetesse con altri incarichi, anche sacrificando i suoi affetti.In realtà una cosa l’aveva sacrificata: le sua mani, che quello stupido incidente sull’albero maestro gli aveva schiacciato. (Adriana Franzoni)
L’isola del tesoro 2
Diego era decisamente disperato, l’indomani avrebbe dovuto consegnare la pagina pubblicitaria per il remake televisivo dell’ Isola del tesoro di Stevenson e non era per nulla soddisfatto dell’immagine che aveva deciso di utilizzare. Si era documentato parecchio, aveva letto un riassunto dettagliato del romanzo, aveva persino rivisto lo sceneggiato di Anton Julio Majano, ma la scintilla creativa non era scattata. Aveva scelto di realizzare una foto che interpretasse la famosa sigla del ’59, quella che da bambino non lo faceva dormire“Quindici uomini, quindici uomini, sulla cassa del morto, e una bottiglia di rum …”; ma, nonostante si fosse dato un sacco da fare per trovare quindici soggetti adatti ad essere fotografati sopra una bara, con in mano una bottiglia di rum, il risultato non lo convinceva affatto. Ed ora quella giovane ragazza, che il DAMS aveva mandato nel suo studio per uno stage di sei mesi, gli proponeva una foto. In un primo momento pensò di non considerarla affatto poi,solo per farle piacere, decise di dare un’occhiata. L’immagine che ora si trovava davanti era sorprendentemente perfetta. La struttura intrecciata di un veliero traspariva attraverso il volto rugoso e abbronzato di un uomo con lo sguardo diretto verso l’infinito, forse un lupo di mare, magari un pirata, comunque uno dei personaggi di Stevenson. Diego guardò la giovane stagista e con aria stupita ed interrogativa chiese: -Chi ha fatto questa foto e chi è l’uomo? -L’ho scattata io e l’uomo è mio nonno, fa il pescatore a Favignana. Diego sorrise compiaciuto, entro sera avrebbe concluso il lavoro. (Daniela Canali)
Il maestro
La sua casa, un sicuro rifugio, ma anche una prigione invalicabile. Ha sempre sognato di vagare nel mondo, sorprendersi di fronte a spettacoli inimmaginabili, spazi vasti pieni di colori. Stanco, chiude gli occhi. Sulle palpebre rimangono impressi i reticoli disegnati dalle travi del soffitto e delle pareti. É sempre rimasto invece all’interno di questo intreccio di travi. Improvvisamente si accorge che i triangoli e i quadrati formati dai legni sono riempiti da sottili vele bianche gonfiate da un vento leggero che lo portano nel cuore e nello spirito delle tante persone che hanno trovato calore e comprensione in questa casa, bambini accompagnati verso la vita con dolce sicurezza, adulti accettati senza domande, vecchi confortati con serenità. L’anziano maestro, che non é mai uscito dal suo angolo chiuso tra le montagne, comprende finalmente di aver viaggiato intorno al mondo. (Adriana Sica)
Il veliero
L’ultimo stuzzicadente e poi è finita. Pinzetta, colla e tanta pazienza. Sollevo la bottiglia, guardo il veliero che contiene e rido sotto i baffi. E’ perfetto.Ti ho fregato, alcolismo, ho vinto io.Non si può bere quando si costruisce un modellino: la mano non deve tremare, il cuore e la mente devono essere saldi.E per completare il trionfo ho usato l’ultima bottiglia che ho scolato.Adesso che ho finito, magari vado a farmi un goccetto. (Wanda Roda)