Il referendum sull’indipendenza della Catalogna di domenica 1° ottobre è sfociato nel caos, con scontri di piazza, numerosi feriti e crescenti tensioni tra Madrid e Barcellona. La domanda posta agli elettori nella scheda era molto precisa: “Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente sotto forma di Repubblica?”. In queste ore tuttavia gli avvenimenti si susseguono a ritmo frenetico e sul piano politico, economico e giuridico sono ancora incerte le conseguenze di ciò che sta accadendo in queste ore.
Secondo alcuni giuristi spagnoli lo svolgimento del referendum non sarebbe direttamente incostituzionale, mentre lo sarebbe una dichiarazione di indipendenza. All’articolo 2 del suo Titolo preliminare, infatti, la Costituzione repubblicana del 1978 sancisce che i suoi principi si basano sulla “indissolubile unità della Nazione spagnola, patria comune e indivisibile di tutti gli spagnoli”. Qualcosa di molto simile si legge nell’articolo 5 della Costituzione italiana, dove si dichiara che la Repubblica è “una e indivisibile”. Interpretando in maniera estensiva la Costituzione spagnola, tuttavia, il Tribunale costituzionale di Madrid ha preso una posizione netta anche in merito allo svolgimento del referendum: ha dichiarato incostituzionale la precedente consultazione svoltasi nel 2014, facendo altrettanto lo scorso luglio e di nuovo a settembre con questo secondo voto. A complicare le cose, a inizio settembre il Parlamento catalano ha approvato una legge sul referendum che, in caso di vittoria del “sì”, impegnerebbe il Parlamento stesso a dichiarare l’indipendenza della regione entro 48 ore dalla conferma definitiva del risultato.
A difesa dell’indipendenza, la Catalogna può appellarsi al diritto di autodeterminazione dei popoli? No. Come spiega Manlio Frigo, professore di Diritto Internazionale all’Università degli Studi di Milano, il principio di autodeterminazione dei popoli si può applicare solo in tre casi, specifici e molto limitati. Al principio possono infatti fare appello soltanto: (a) i popoli soggetti a dominio coloniale; (b) i popoli il cui territorio è stato occupato da un paese straniero; (c) le minoranze all’interno di un paese che si vedano rifiutare un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo. Secondo Frigo, quest’ultima ipotesi è “la più problematica da definire”, e deve scontrarsi con “il limite rappresentato da un altro principio sancito dal diritto internazionale”, quello cioè dell’integrità territoriale degli Stati. Secondo le interpretazioni prevalenti, dunque, i catalani non possono appellarsi al diritto internazionale e la questione diventa sostanzialmente politica, sia che venga risolta attraverso un compromesso, sia che si ricorra a vie meno pacifiche.
Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2015 il Pil catalano ammontava a 204 miliardi di euro. È una cifra equivalente al 19% del Pil spagnolo, il che significa che, se la Catalogna fosse indipendente, avrebbe dimensioni superiori a quelle di 15 altri paesi dell’Unione europea (superando per esempio Portogallo e Grecia). La Catalogna costituisce dunque una parte rilevante dell’economia spagnola, con un’importanza all’incirca doppia rispetto a quella che la Scozia ha per il Regno Unito (10% del Pil nazionale). La Catalogna è inoltre la quarta regione più riccadella Spagna, con un Pil pro capite di circa 28.000 euro contro una media nazionale di poco più di 23.000 euro. È tuttavia superata sia dalla regione della capitale, Madrid (quasi 32.000 euro pro capite), sia dagli autonomisti Paesi Baschi (31.000 euro). Le istanze secessioniste sono state infervorate dalla considerazione che i residenti catalani versano più tasse al governo centrale di quanti trasferimenti ricevano. Secondo i calcoli più recenti, nel 2013 la regione catalana riceveva circa 2.075 euro pro capite all’anno dal sistema di redistribuzione regionale: sotto la media nazionale, e circa il 10% in meno di quanto spetterebbe loro nel caso tutte le regioni ricevessero lo stesso trattamento. Va tuttavia evidenziato che redistribuzioni di reddito a livello regionale accadono in qualsiasi Stato moderno, e che il prelievo netto effettuato sui residenti catalani(circa 220 euro pro capite) è nettamente inferiore rispetto, per esempio, a quello esercitato in Italia sui residenti della Lombardia (circa 5.000 euro a testa).
I catalani favorevoli all’indipendenza pensano che la regione supererebbe con slancio tutte le conseguenze di breve periodo dovute alla transizione verso l’indipendenza. I sostenitori del “sì” possono per esempio citare una disoccupazione inferiore a quella spagnola (13% contro 17%) e un’economia che è cresciuta in misura leggermente superiore alla Spagna nel suo complesso dopo la doppia recessione del 2009–2012. Tuttavia, in caso di effettiva indipendenza la regione andrebbe incontro a molti rischi, primo tra tutti il fatto di ritrovarsi al di fuori dell’Unione europea e senza alcuna speranza di potervi fare nuovo ingresso, almeno sul breve periodo. Per poter effettuare l’accesso in Ue sarebbe infatti necessario ottenere l’approvazione di tutti gli Stati membri, ed è evidente che quantomeno il governo spagnolo si opporrebbe a un semplice ritorno della Catalogna nell’Unione. Una Catalogna fuori dall’Ue si troverebbe a dover affrontare almeno tre grandi problemi. Il primo sarebbe la perdita dell’accesso al Mercato unico, per cui sulle esportazioni catalane verso la Spagna e gli altri paesi Ue si applicherebbero i dazi europei (secondo le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio). Anche negoziare un accordo di libero scambio con l’Ue potrebbe richiedere anni e, comunque, rischierebbe di non essere ratificato da tutti i Parlamenti nazionali. Il secondo problema, il fatto che il debito pubblico catalano resterebbe in euro, e il nuovo governo si troverebbe a dover scegliere tra adottare una nuova moneta e prepararsi a una forte svalutazione (con rischio di forte inflazione interna), o adottare unilaternalmente l’euro e perdere indipendenza monetaria. Il terzo problema, collegato al precedente, riguarderebbe il fatto che la Catalogna non potrebbe più accedere alla liquidità fornita dalla Bce e all’assistenza finanziaria agevolata in caso di crisi (fornita dal Meccanismo europeo di stabilità). I mercati finanziari vedrebbero dunque sia la Catalogna sia le sue banche come molto più rischiose, e questo farebbe alzare (probabilmente di molto) il costo dell’indebitamento pubblico e privato. A sua volta, come si è visto nel caso della recessione europea del 2011–2013, il rapido aumento del costo dei debiti tende ad accentuare le conseguenze di una crisi economica, e nel recente passato ha persino condotto alcuni paesi (come Grecia, Portogallo e Irlanda) vicini alla bancarotta.
Il clima acceso delle ultime settimane ha polarizzato l’opinione pubblica. Resta il fatto che, secondo i più recenti sondaggi, nell’elettorato catalano favorevoli e contrari non sarebbero molto distanti in termini di voti e gli indecisi (oltre il 20%) sarebbero ancora determinanti. Tuttavia le cose cambiano se si considera solo coloro che effettivamente si recherebbero alle urne. Va infatti ricordato che l’affluenza a un referendum dichiarato incostituzionale è di solito molto bassa (nel 2014 aveva votato tra il 37% e il 42% degli aventi diritto), e che i favorevoli all’indipendenza tendono ad andare a votare in massa. Per questo, nonostante i sondaggi che prendevano come campione di riferimento l’intera popolazione catalana fossero altrettanto incerti, il risultato del 2014 aveva visto un 81% dei votanti esprimersi a favore dell’indipendenza. E benché le peculiarità del referendum che dovrebbe tenersi il 1° ottobre complichino notevolmente la possibilità di fare pronostici attendibili, i sondaggi sembrano indicare che, tra chi si dichiara sicuro di andare a votare, circa il 60%–70% si esprimerebbe a favore dell’indipendenza.
Fonte: ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale