Negli ultimi tempi, si parla spesso degli effetti della pandemia sulle donne: che durante la chiusura hanno visto aumentare il lavoro di cura; che si sono trovate a dover gestire insieme i bambini chiusi in casa e il lavoro da remoto; che sono la maggior parte del personale sanitario, quindi si sono ammalate… tutte queste cose sono state raccontate anche in un rapporto dell’Unione Europea che si può leggere e scaricare in rete, seguend questo link. Ecco la traduzione in italiano delle conclusioni:
“Una pandemia amplifica e acuisce tutte le disuguaglianze esistenti. Queste disuguaglianze a loro volta determinano chi è colpito, la gravità di tale impatto e i nostri sforzi per il recupero. La pandemia COVID-19 e i suoi impatti sociali ed economici hanno creato una crisi globale senza precedenti nella storia delle Nazioni Unite, una crisi che richiede una risposta dell’intera società per confrontarsi con la sua vastità e complessità. Ma questa risposta, sia a livello nazionale che internazionale, finirà per essere notevolmente indebolita se non tiene conto delle vite e del futuro di donne e ragazze. Oppure, se scegliamo di ripetere semplicemente le politiche del passato e non riusciamo a sfruttare questo momento per ricostruire società più eque, inclusive e resilienti.
Al contrario, i piani di risposta al COVID-19, i pacchetti di recupero e le risorse stanziate devono affrontare gli impatti di genere di questa pandemia. Questo significa:
(1) includere donne e organizzazioni femminili nei punti cruciali della risposta COVID-19;
(2) trasformare le disuguaglianze del lavoro di cura non retribuito in una nuova economia di cura inclusiva per tutti; e
(3) progettare piani socio-economici focalizzandosi sui modi in cui le disuguaglianze hanno reso tutti noi più vulnerabili agli impatti della crisi.
Mettere le donne e le ragazze al centro delle economie determinerà fondamentalmente risultati di sviluppo migliori e più sostenibili per tutti, sosterrà una ripresa più rapida e ci rimetterà in piedi per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile”.
Tutto questo può essere condivisibile, ma sembra poco incisivo. L’attenzione verso le donne ha riportato ad argomenti di anni fa, che potrebbero ancora essere attuali. Secondo uno schema di cui si parlava nella seconda metà del ‘900, il maschile è lineare, basato sulla competizione e sui cosiddetti “Old Boys Networks”, ovvero su legami caratterizzati dalla convenienza reciproca. Mentre il femminile dovrebbe essere più circolare, basato sulla cooperazione e sulla creazione di legami di cura. Oggi, pensando alla sostenibilità, qualcuno correla il femminile all’economia circolare – contrapposta, come si dice spesso di questi tempi, all’economia lineare. Si tratta veramente di approcci tipici degli uomini e delle donne?
In effetti per la sostenibilità occorra utilizzare di più i valori del femminile. Non basta che le donne partecipino (alle organizzazioni, al potere, alle decisioni): occorre che si facciano promotrici di una mentalità diversa. Può sembrare poco, e invece sarebbe moltissimo. Perché il modello della nostra società, quello che cinquant’anni fa era contestato dalle femministe perché creato dall’uomo bianco di sesso maschile, ci ha dato molto soprattutto come benessere, ma oggi ci accorgiamo che si basa sull’economia lineare, e per questo non è sostenibile. Per di più il benessere è direttamente collegato alla disponibilità di energia a basso prezzo. E ha permesso tanti progressi in tutti i campi. Si è potuto lavorare di meno e studiare di più; si è potuto capire l’importanza della tolleranza e delle condivisioni. Ora però ci si rende conto che le risorse non sono infinite.
Paradossalmente ma non troppo, alcuni dei primi segnali di allarme sono stati lanciati proprio da alcune donne. Rachel Carson, autrice nel 1962 del libro “Silent spring”, che ha segnato la nascita del movimento ambientalista; e Donella Meadows, ricercatrice del MIT e autrice nel 1972 (insieme ad altri) del rapporto “I limiti della crescita”, di cui si è già parlato in passati articoli. In Italia c’è stata Laura Conti, medico e attivista per l’ambiente, che oggi è quasi dimenticata, ma ha lasciato molti scritti interessanti. Spesso citato in questa rubrica il blog di Gail Tverberg, che unisce la sua esperienza economica all’approfondimento delle problematiche dell’energia.
Sarà un caso che si tratta di donne? In effetti, anche molti uomini oggi sono attivi nel campo della sostenibilità. Ma tornando al femminile, ecco un brano di un libro degli anni ‘70 del 900: “Il femminile appartiene a tutti noi, agli uomini come alle donne, come un modo di essere…E’ stato molto trascurato e soprattutto nel nostro secolo. La sua assenza si traduce nella discriminazione contro le donne, non solo nei modi più ovvi – nel salario, nelle promozioni, nei privilegi – ma in tutti i livelli della società… Possiamo sentire la sua assenza nel senso di inferiorità, e nella rabbia compensatoria, che le donne soffrono riguardo il loro fisico, la loro incapacità di affermarsi effettivamente, il senso di impotenza e disperazione per quanto riguarda la possibilità di essere capite a fondo dai loro partner maschi come persone che hanno un’anima loro propria. Possiamo anche sentire la sua assenza nell’attitudine degli uomini verso le presenza del femminile in loro stessi. In molti uomini, quando sono costretti a confrontarsi con l’immaginario del femminile sorge lo scherno, l’impazienza, la rabbia e spesso anche il terrore. Si sentono imprigionati, spaventati, incerti, sottoposti a richieste eccessive, e quasi invariabilmente hanno una reazione di resistenza impaurita”. Per realizzare un mondo più sostenibile, occorre “tirare fuori” il femminile che è in noi. Negli esseri umani, nella società. È una proposta, ma anche un po’ una provocazione, e vale per gli uomini come per le donne.