Enzo Favoino è un personaggio da tenere d’occhio: di professione è ricercatore ambientale alla Scuola Agraria del Parco di Monza, un centro di ricerca che ha avuto un ruolo fondamentale in Italia ed Europa per lo sviluppo e il consolidamento delle pratiche di raccolta differenziata, riciclaggio, compostaggio. Favoino si occupa anche di riduzione della quantità dei rifiuti. È tra i fondatori dell’ECN (European Compost Network) ed è attualmente il coordinatore del Comitato Scientifico del Centro di Ricerca Rifiuti Zero. Il 31 gennaio scorso è partito a nuoto dalla Canottieri San Cristoforo per arrivare alla Darsena di Milano. Due chilometri in acqua con una temperatura di 6,8 gradi, per ricordare la tradizione del Cimento Invernale, che si svolge a Milano dal lontano 1895. Con le sue imprese, Favoino vuole suscitare attenzione – e raccogliere fondi – sul cambiamento climatico e la dispersione di plastica nei mari. Ce la farà?
Ho avuto occasione di ascoltare una sua conferenza la sera del 10 Settembre 2019 a Pavia, presso il Collegio Ghislieri. L’intervento si intitolava: “La marea di plastica: il problema, le cause e come affrontarlo”. Non ci forniva una bacchetta magica per risolvere il problema, ma cercava di aiutarci a capire meglio. Il prof. Favoino è una persona molto preparata e soprattutto sa vedere i diversi aspetti. Per esempio, solo da poco ci si è resi conto che la plastica viene così facilmente dispersa nell’ambiente. E adesso che ce ne rendiamo conto, sembra molto difficile fermarsi e invertire il processo: soprattutto perché la plastica è utile per tanti usi, e i paesi emergenti stanno crescendo nello stesso modo in cui siamo cresciuti noi nel recente passato. E non si capisce bene come potremo chiedere loro di fare dei passi indietro.
Abbiamo già parlato degli imballaggi e abbiamo evidenziato che si tratta spesso di materiali con più componenti, per esempio diversi tipi di plastica mescolati tra loro, o carta accoppiata con la plastica. Questo fa sì che la raccolta differenziata abbia bisogno di un ulteriore sforzo per separare la plastica facilmente riciclabile, più pregiata, da quella meno pregiata. L’Italia – come molti altri paesi in Europa e come gli Stati Uniti – inviava gran parte della plastica della raccolta differenziata in Cina, dove veniva separata e riciclata quando possibile; dal primo Gennaio 2018 però la Cina ha deciso di non accettare più questi materiali di scarso valore, causando una serie di problemi nel settore. Per saperne di più, si potrebbe leggere un corposo rapporto intitolato “L’Italia del riciclo 2018”, realizzato da Fondazione per lo sviluppo sostenibile (FISE UNICIRCULAR, Unione Imprese Economia Circolare), che si può scaricare dalla rete. Tenendo conto che la raccolta differenziata è solo il primo passo, riciclare è molto più complicato. Secondo uno studio dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, soltanto il 30 per cento della plastica raccolta in Italia è riciclata. Un altro 40% viene bruciato in termovalorizzatori o inceneritori, e il resto finisce in discarica. Senza contare quello che viene comunque anche adesso inviato all’estero, e probabilmente viene catalogato come “riciclato”. Ma da qualcun altro.
Come avviene spesso sulle questioni ambientali ci troviamo presi tra due tendenze diverse se non opposte, entrambe con i loro detrattori e sostenitori che ci inviano i loro messaggi più o meno pubblicitari. Alcuni pensano di risolvere il problema con la raccolta differenziata, il riciclaggio e l’economia circolare; altri sostengono che tutto questo, per quanto sia un doveroso primo passo, non può bastare se non ci si decide a cambiare i nostri consumi, diminuendo la produzione dei rifiuti alla fonte. Personalmente, propendo per questa seconda soluzione e forse per questo l’intervento di Favoino mi è piaciuto. Mi trovo in sintonia sulla sua affermazione che, per esempio, occorre utilizzare il più possibile piatti e bicchieri lavabili e riutilizzabili, evitando non soltanto la plastica monouso, che peraltro sarà presto fuori legge in Europa, ma anche i prodotti monouso compostabili, che comunque aumentano il volume dei rifiuti e richiedono tempo ed energia per essere smaltiti. In effetti ci sarebbe da fare anche una riflessione sui sacchetti di plastica compostabili e sull’abuso che ne viene fatto.
Nel settembre 2019 Regione Lombardia ha organizzato l’evento “Buone Pratiche Green in Agricoltura”: esiste un ‘Cluster Lombardo della Chimica Verde’, “punto di riferimento regionale per lo sviluppo della bioeconomia e della economia circolare”. In particolare, durante questo convegno sono stati presentati i risultati di un progetto che ha riguardato la produzione sostenibile di bioplastiche a partire da sottoprodotti agroalimentari sottoutilizzati. Le bioplastiche sono costituite principalmente da polimeri che derivano da fonti biologiche, come per esempio la canna da zucchero, l’amido, la cellulosa, la paglia, il cotone… Sotto il nome di bioplastica si indica sia la plastica derivata da prodotti biologici, sia la plastica biodegradabile; non è detto però che una bioplastica possieda entrambe queste caratteristiche. Va ricordato che alcuni tipi di plastica derivata da materiali di origine fossile sono biodegradabili, e che biodegradabile non è lo stesso che compostabile. Fatte tutte queste premesse, sarebbe comunque importante evitare di utilizzare risorse alimentari come materie prime per la produzione di bioplastiche.
Durante il convegno, è stato illustrato in particolare il progetto PHA Star, finanziato da Regione Lombardia nell’ambito del bando Smart Fashion and Design. Obiettivo del progetto era mettere a punto un metodo di produzione di un biopolimero che si chiama appunto PHA (la sigla sta per Poliidrossialcanoati: polimeri di origine microbica, cioè prodotti da batteri opportunamente selezionati). Non si tratta quindi di semplici reazioni chimiche, in questo caso abbiamo a che fare con organismi viventi che in un certo senso, producono quello che vogliono loro. Si possono però influenzare agendo sui nutrienti che vengono loro forniti. Gli esperimenti iniziali in laboratorio sono stati fatti dall’Università di Milano (Gruppo Ricicla), mentre una piccola azienda specializzata ha messo a punto un impianto pilota che sta dando buoni risultati preliminari. Il materiale di partenza è il siero di latte, un sottoprodotto dell’industria casearia, che costituisce l’85-95% del volume iniziale del latte.
Il siero è anche il più importante inquinante del settore lattiero-caseario e viene riutilizzato solo in parte, come componente dei mangimi animali. In Europa se ne producono ogni anno circa 80 milioni di tonnellate, 8 delle quali in Italia. Il siero può essere riutilizzato nell’industria casearia stessa per produrre ricotta, generando un altro sottoprodotto, la scotta, anch’essa utilizzabile per la produzione di PHA. La produzione di PHA ha quindi il vantaggio di utilizzare scarti che hanno un potenziale inquinante piuttosto elevato. I residui della produzione possono poi essere ancora utili negli impianti di biogas già presenti sul territorio lombardo.
Quali sono allora gli aspetti negativi? Prima di tutto, i costi di produzione del PHA sono molto più alti di quelli della produzione di plastiche “convenzionali”, addirittura dell’ordine di almeno 5 volte di più. Non sono stati presentati dati sul consumo energetico necessario per il processo. Di solito questo aspetto viene trascurato. Il bilancio energetico è invece di estrema importanza, se si vuole parlare di ambiente e di economia sostenibile. Va anche aggiunto che non trattandosi di plastiche compostabili, se malauguratamente uno di questi prodotti venisse abbandonato nell’ambiente, avrebbe comunque un tempo di degrado dell’ordine di diversi anni. L’argomento è molto ampio e ci sono molti aspetti contrastanti. Si deve usare la plastica quando serve: pensiamo a tutti gli impieghi medici. Evitiamo invece i prodotti usa e getta per usi non indispensabili. Per esempio, evitiamo le borse di plastica! E scegliamo i prodotti da comprare anche considerando gli imballaggi. Certi tipi di imballaggi sono utili, e a volte indispensabili, per i prodotti che vengono da lontano. Se però ci forniamo direttamente dai produttori, oppure dai negozi sotto casa, un sacchetto di carta può bastare. Il vantaggio sarà non soltanto nella produzione di rifiuti, ma anche in un minore utilizzo del trasporto su gomma.