In questi giorni in cui mi ritrovo in casa alle prese con un tempo più lento del solito, ascolto la radio e non sento parlare di altro che del Coronavirus. Ma anche l’economia sta subendo una battuta d’arresto; abbastanza logica peraltro, perché molte aziende sono ferme in tutto il mondo; per di più, in una economia che sembra basata sul consumo e sull’acquisto, siamo tutti chiusi in casa e possiamo spendere poco o nulla.
Il prezzo del petrolio è sceso; chi ha seguito la mia rubrica sull’energia negli ultimi mesi sa che mi interessa capire meglio le ragioni del cambiamento. Da qualche anno sto cercando di imparare qualcosa di più su questi meccanismi, ma scopro sempre aspetti nuovi e difficili da analizzare. E tutto questo anche se mi limito a seguire due o tre siti, che forsenon sono neppure i più autorevoli [1] [2].
Come ho scritto poco tempo fa, anche noi non esperti di economia possiamo capire che il prezzo del petrolio, come per tutte le materie prime quotate in borsa, è influenzato soprattutto dall’offerta e dalla domanda. Quindi secondo alcuni non ci dobbiamo meravigliare della diminuzione di prezzo appena avvenuta: la Cina, che è uno dei maggiori consumatori di petrolio del mondo, si è fermata. Subito dopo poi si sono fermate (o quasi) tutte le economie più avanzate, quelle che comprano oltre al petrolio, la maggior parte dei prodotti che circolano nel mercato. Tutto questo ovviamente ha causato il crollo del prezzo. Ma i miei siti hanno anche un’altra spiegazione, forse un po’ più inquietante: è in corso una vera e propria guerra del petrolio. Ho cercato di approfondire un po’ l’argomento e proverò a riassumere qui quello che credo di aver capito.
Sappiamo tutti, anche se secondo me non sempre ci rendiamo conto di quanto sia importante per la vita di tutti i giorni, che c’è un legame tra il petrolio e l’andamento dell’economia mondiale. Se il prezzo del petrolio è troppo basso, l’industria del petrolio si trova a operare in perdita e corre il rischio di fallire, con grosse conseguenze perché è sempre una delle maggiori imprese a livello mondiale. Ma se il prezzo è troppo alto, i prezzi delle materie prime e del cibo crescono troppo e diventano insostenibili soprattutto per i più poveri. Quindi i Paesi produttori da una parte, e i consumatori dall’altra hanno interesse ad agire sul prezzo del petrolio, e cercano di farlo regolando la produzione.
Gli Stati Uniti sono diventati negli ultimi anni il maggiore produttore di petrolio al mondo grazie alla produzione di petrolio da scisto (o Shale Oil). Hanno superato l’Arabia Saudita e hanno potuto immettere sul mercato una quantità di petrolio sufficiente ad evitare – almeno per loro – ogni rischio di penuria di questa indispensabile materia prima. Questo ha anche permesso loro di tenere il prezzo relativamente basso. Ma estrarre lo Shale Oil è più costoso rispetto al petrolio convenzionale, e molto più dannoso per l’ambiente. Come è stato possibile incentivare così tanto la produzione di Shale Oil negli Stati Uniti?
La contraddizione a mio parere consiste nel fatto che un metodo di estrazione più costoso è servito a mantenere i prezzi più bassi. Sono meccanismi complessi, ma sicuramente c’entra il fatto che una grande quantità di petrolio è stata messa sul mercato, grazie alla capacità di fare investimenti anche se si trattava di investimenti in perdita. Quindi in poche parole si può dire che dipende dal legame tra la finanza e il petrolio (diciamo che è un ragionamento un po’ grossolano, ma chi ha pazienza e legge l’inglese può capire meglio dedicando un po’ di tempo a questo rapporto finlandese che si può scaricare in rete e mi sembra molto interessante ed esauriente: https://tupa.gtk.fi/raportti/arkisto/70_2019.pdf).
Ecco il riassunto di alcuni avvenimenti degli ultimi 5 anni:
- nel 2014-2015 il prezzo del petrolio è aumentato molto, probabilmente perché il consumo mondiale continuava a crescere e la produzione non era in grado di crescere altrettanto
- a partire dal 2016, però, gli USA hanno cominciato ad estrarre lo Shale Oil, immettendo sul mercato una quantità sufficiente ad abbassare il prezzo
- l’Opec, che era nata proprio per cercare di regolare il prezzo, aumentando o diminuendo la produzione, ha cominciato a perdere quote di mercato
- nel 2017-2018, l’Arabia Saudita avrebbe potuto diminuire la sua produzione per ottenere un prezzo più alto, ma ha preferito non farlo per mantenere la sua quota di mercato, minacciata dai nuovi produttori statunitensi di Shale Oil
- alcuni analisti già allora sostenevano che si trattasse di una guerra del petrolio; ma non tutti sono d’accordo nell’indicare chi sono i contendenti. Secondo alcuni, i prezzi bassi erano voluti dagli Stati Uniti, per danneggiare gli altri produttori, soprattutto la Russia e il Venezuela. Altri suggerivano che ci fosse una competizione per vendere di più, tra Arabia Saudita e Stati Uniti che nel frattempo sono diventati i maggiori produttori al mondo
- l’Arabia Saudita nei fatti ha perduto questa guerra ed è stata costretta nel 2018-2019 a ridurre la propria produzione di petrolio – e la propria quota di mercato – per avere un prezzo più alto. Prezzo più alto che fa comodo anche agli Stati Uniti che producono prevalentemente in perdita il loro Shale Oil.
Non dimentichiamo che l’Arabia Saudita produce il petrolio a costi molto bassi, ma ha bisogno di venderlo a prezzo alto per mantenere il tenore di vita che assicura a tutti suoi sudditi; d’altro canto, come già detto, gli Stati Uniti producono lo Shale a prezzo alto, ma ne hanno un grosso vantaggio perché sono i maggiori consumatori al mondo, e quindi mantengono la produzione più elevata possibile, anche se questo avviene aumentando il debito interno.
Quest’anno, alla guerra del petrolio che probabilmente non era affatto finita, si è sovrapposta l’epidemia di Coronavirus, che sta fermando molte attività produttive e diminuisce in modo significativo il consumo di energia primaria. Sul fronte della guerra del petrolio, è intervenuta anche la Russia, attualmente terzo produttore mondiale, che prima sembrava abbastanza defilata.
Dato che la Russia ha rifiutato di diminuire la propria produzione, alcuni analisti in questi giorni parlano di una guerra scatenata da Russia ed Arabia Saudita (che sarebbero alleati) contro lo Shale Oil degli Stati Uniti. Altri invece sostengono che la guerra sia tra Arabia Saudita e Russia, per guadagnare quote di mercato.
Cosa può pensare una persona della strada di tutto questo, e quali potrebbero essere le conseguenze sulla nostra vita? Non è facile da capire. Il prezzo basso potrebbe essere utile per far ripartire l’economia quando si potrà ritenere passata la pandemia; ma se ci si ritrova in recessione, la ripresa potrebbe essere difficile.
In generale non si parla più della possibile diminuzione della risorse. Abbiamo visto che nel primo decennio del 2000 si cominciavano a prevedere alcuni problemi dovuti all’aumento del costo di estrazione, del costo energetico (misurato tramite EROI) e al costo ambientale del petrolio. Nel secondo decennio di questo secolo, l’utilizzo dello Shale Oil da parte degli Stati Uniti ha spostato in avanti la possibile crisi, che secondo me (e non solo) cominciava a manifestarsi con gli aumenti del prezzo dal 2014.
Ora il rallentamento dell’economia causato dal Coronavirus ha rimescolato le carte e aggiunto un nuovo parametro da analizzare. Vi inviterei a considerare alcuni diversi aspetti:
- La nostra economia si basa su un consumo elevato di energia; ma non sempre si tratta di soddisfare bisogni essenziali. Come abbiamo visto, molta energia serve a produrre cibo e vestiario in quantità anche superiori al bisogno mondiale – trascurando per ora le molte disuguaglianze nella distribuzione di questi beni
- Tutto questo finora ha funzionato seguendo una filosofia tipo: produciamo molto a basso prezzo (principalmente nei Paesi poveri) e consumiamo tutto ciò che si produce (con un grosso contributo dei Paesi ricchi), buttando via le eccedenze.
Forse non si poteva comunque continuare così, ma uscire dal circolo vizioso non sarà facile. Pensiamoci su.
[2] https://ourfiniteworld.com/
Ing. Giovanna Gabetta, AIDIA Milano. Per contatti: giovanna.gabetta@gmail.com