Il reale rapporto tra benessere ed energia: la crescita apparente non è del tutto sostenibile

Pubblicato il 7 Ottobre 2019 in , da Giovanna Gabetta

Ci siamo lasciati, nella puntata precedente, con l’immagine del contadino moderno che coltiva da solo, grazie al suo trattore e alle altre macchine agricole, un grande appezzamento di terreno, da cui ottiene un’ottima resa e un abbondante raccolto, che verrà poi inviato sul mercato anche molto lontano dal luogo di produzione.

La produzione di cibo in effetti è molto efficiente nel mondo. Tuttavia, secondo l’ultimo rapporto FAO “The state of Food Security and Nutrition in the world – 2019[1], ci sono ancora 820 milioni di persone denutrite, mentre circa 2 miliardi di esseri umani sono sovrappeso oppure obesi. Il rapporto della FAO è molto interessante perché esamina i diversi fattori che influenzano questi numeri, attualmente  entrambi in crescita (crescono sia la denutrizione sia l’obesità, e in molti casi si potrebbe considerarli le due facce di una stessa medaglia).

Altri dati dicono che dal 30% al 50% del cibo prodotto viene buttato nei rifiuti. Per cercare di capire meglio, consiglierei di leggere un rapporto pubblicato nel 2013 dall’associazione degli ingegneri meccanici inglesi[2], e ancora molto attuale. Sarebbe  interessante approfondire questo argomento,  ma per ora qui vogliamo occuparci principalmente di un aspetto, e cioè della dipendenza della disponibilità di cibo dalla disponibilità di energia.

Mi sembra importante sottolineare che grazie alla disponibilità di energia a basso costo, c’è oggi una sovrapproduzione di cibo, a cui corrisponde basso prezzo di vendita. Il basso prezzo si mantiene anche perché le catene della grande distribuzione possono approvvigionarsi dove è più conveniente, e trasportare i prodotti su grandi distanze. Un altro effetto “collaterale” della disponibilità di energia a basso costo. Avere molto cibo a disposizione è sicuramente un segnale di benessere, ma stiamo cominciando a vederne anche aspetti negativi, come appunto l’aumento dell’obesità, l’inquinamento, il consumo eccessivo del suolo…

Sempre per quanto riguarda l’uso dei trasporti e quindi l’effetto della disponibilità di combustibili fossili, voglio citare un altro esempio illuminante: il tessile, o meglio ancora l’abbigliamento. Quello che in inglese si chiama in modo molto efficace “fast fashion”. Per dirlo in modo semplice, la disponibilità di energia a basso costo ci permette di acquistare abiti a basso prezzo e di averne sempre di nuovi, perché i prodotti tessili vengono spostati qua e là per il mondo, a cominciare ad esempio dal cotone e dal filato.

Una maglietta, mi dicono[3], inizia il suo viaggio in una fattoria negli USA dove si produce il cotone. Il cotone viene inviato in Colombia o in Indonesia per essere filato. Il filo va in Bangladesh per essere tessuto, lavato e tinto: poi torna in Paesi del mondo “sviluppato” (come per esempio USA, Italia o UK) dove vengono fatti e distribuiti i prodotti finali. Altri viaggi possono essere necessari in alcuni casi per il taglio o addirittura per attaccare i bottoni! Bangladesh, China e India sono diventate le fabbriche del vestiario mondiale. Più di 60 milioni di persone lavorano nella “fast fashion”. In Asia,  più di 15 milioni di cui l’80% sono donne, giovani e spesso provenienti da classi povere rurali. Il 90% dei vestiti viaggia per nave e le navi bruciano combustibile di bassa qualità – molto inquinante. Mediamente ogni maglietta viaggia per circa 32.000 chilometri, e ogni paio di jeans per 80.000. Tra l’altro, se le finiture finali sono fatte in Italia, la legge consente di applicare il cartellino “made in Italy”…

Nel mondo, ogni anno si consumano 80 miliardi di nuovi vestiti, con un aumento del 400% negli ultimi 20 anni. Negli USA ogni anno si producono circa 37 kg di rifiuti tessili per persona, più circa 10 miliardi di tonnellate di rifiuti tessili industriali. Dal 70% (UK) al 85% (Australia) di vestiario acquistato finisce nei rifiuti ogni anno.

Sono solo due esempi alla portata di tutti, e sono emblematici per farci capire l’importanza dell’energia a basso prezzo nel nostro benessere. Il sistema si mantiene perché:

  • c’è una grande disponibilità di combustibili fossili a basso prezzo,
  • il nostro tenore di vita e i nostri salari ci permettono di consumare assorbendo produzioni superiori a quello che sarebbe necessario,
  • si sfrutta mano d’opera a basso prezzo, che peraltro ricava un vantaggio perché ha un lavoro e comincia ad uscire dalla povertà.

Tutto questo ha una contropartita nella produzione sempre maggiore di rifiuti, nell’inquinamento anche termico e in poche parole nella mancanza di sostenibilità, di cui forse il mondo sta cominciando ad accorgersi.

Infatti, in questo articolo ho parlato di due esempi che sono sotto gli occhi di tutti e possono aiutarci a capire; ma alcuni economisti si occupano da tempo del legame tra energia ed economia. Un esempio? Il professor Charles Hall della State University of New York, e i suoi colleghi che nel 2001 hanno scritto un articolo[4] in cui  sostengono che i modelli dell’economia basata sulla crescita non tengono conto in modo adeguato della quantità di energia necessaria per il nostro benessere, e del suo costo. Ne riparleremo.

 


(http://www.fao.org/state-of-food-security-nutrition)

[1] https://www.imeche.org/docs/default-source/default-document-library/global-food—waste-not-want-not.pdf?sfvrsn=0

[1] http://www.fabricoftheworld.com/fashion-on-a-toxic-trip-just-how-far-do-your-clothes-travel-to-reach-you/

[1] C.Hall et al, “The need to reintegrate the natural sciences with economics”, BioScience, Vol.51 n°8, August 2001.