Una delle convinzioni più diffuse sul cambiamento climatico è quella secondo la quale gli eventi atmosferici catastrofici stiano aumentando. Ma se si analizzano la frequenza degli incendi e i parametri come la piovosità e la temperatura, le correlazioni sono limitate
Come ci si abitua a credere che l’energia sia a disposizione senza limiti e senza conseguenze sull’economia così per molte altre considerazioni di tipo scientifico ci si abitua a seguire acriticamente le indicazioni che compaiono sui media, invece di cercare di capire meglio e di approfondire. Effettivamente, al livello attuale delle conoscenze, è difficile che una persona possa essere in grado di capire tutto, o anche soltanto gli aspetti principali delle ricerche che vengono raccontate, se sono al di fuori delle proprie competenze. Però tutto questo può fare sì che si diffondano convinzioni non corrette.
Per fare un esempio, una delle convinzioni più diffuse sul cambiamento climatico è quella secondo la quale gli eventi atmosferici catastrofici stiano aumentando. Può essere molto interessante, però, leggere qualche articolo scientifico che riporta i dati sugli eventi e la loro elaborazione matematica. L’articolo a cui ci si riferisce, il cui autore è il noto scienziato danese Bjorn Lomborg, nonostante giunga a delle conclusioni poco condivisibili, è molto dettagliato e riporta una bibliografia veramente ampia (B. Lomborg, Welfare in the 21st century: Increasing development, reducing inequality, the impact of climate change, and the cost of climate policies). Per eventi catastrofici si intendono le piogge, le inondazioni, la siccità, gli uragani e molti altri fenomeni. Analizzando per esempio gli incendi boschivi, lo scienziato sottolinea che “molti considerano gli incendi boschivi come un problema sempre più diffuso. La percezione di questi eventi sia nei media sia negli articoli scientifici è che siano in crescita sia il numero di incendi, sia la loro gravità e i danni che ne derivano. Tuttavia, nonostante alcune importanti eccezioni, gli studi quantitativi disponibili non confermano tali tendenze generali”. (Doerr, Stefan H, Santín, Cristina, 2016. Global trends in wildfire and its impacts: perceptions versus realities in a changing world. Philos. Trans. R. Soc. Lond., B, Biol. Sci. 371 (1696), 20150345)
La citazione qui sopra è tratta da un articolo pubblicato nel 2016, che l’autore cita per dimostrare la validità dei modelli che prevedono la possibile evoluzione del benessere e della sua diffusione nel secolo attuale. Per quale motivo è interessante leggere questo articolo e altri sullo stesso tema? Non soltanto perché sono molto documentati e pubblicati dopo accurate revisioni, ma anche:
- perché spiegano una volta di più come il benessere, aumentato moltissimo a partire dalla seconda metà del Ventesimo secolo, sia legato all’energia a basso costo che si ha a disposizione, e al modo con cui la si utilizza
- perché dimostrano che è molto difficile correlare in modo razionale l’andamento degli incendi, come di molti altri eventi cosiddetti “estremi”, ai soli parametri climatici. Anzi, vengono riportati altri parametri, alcuni dei quali sono comunque antropici, che influenzano l’entità, il numero e i danni prodotti dai fenomeni estremi.
Incendi, biomassa ed energia
Per gli incendi va ricordato che, a partire della scoperta del fuoco e fino a circa la metà del 1800, gli esseri umani utilizzavano combustibili rinnovabili, ossia quella che tecnicamente si chiama – ancora oggi – biomassa, cioè soprattutto legno, e materiali vegetali di scarto. Tutti questi materiali sono rinnovabili, a patto che utilizzandoli si tenga conto del tempo necessario a sostituirli, per non esaurire la risorsa.
L’uso di combustibili di questo tipo comportava la presenza di fiamme all’interno delle abitazioni. Uno dei metodi che vengono utilizzati per avere dati sul numero e l’entità degli incendi in passato, è la presenza di carbone di legna nei sedimenti. Questi dati suggeriscono che in generale gli incendi sarebbero diminuiti in modo significativo dopo il 1870. Questa è la data approssimativa della cosiddetta “transizione pirica”; in altre parole, gli incendi sono diminuiti da quando gli esseri umani hanno cominciato, grazie all’uso dei combustibili fossili e all’invenzione dei motori a combustione interna, a confinare la combustione all’interno del motore delle automobili e negli impianti industriali. Quindi i fuochi sono diventati molto più rari all’interno delle abitazioni. In particolare, le cucine a gas hanno un tipo di fiamma molto meno pericolosa di quella delle stufe a legna, sono munite di sistemi di sicurezza e vengono utilizzate solo in alcuni Paesi. Oggi, molte persone non hanno mai l’occasione, nella loro vita, di sperimentare il concetto di “focolare domestico”.
Gli esseri umani hanno cominciato a cercare di evitare gli incendi da quando sono diventati sedentari. Chi costruisce una abitazione vuole che duri a lungo; e chi vuole coltivare un terreno smette di essere nomade. Tutte queste persone vengono danneggiate dagli incendi, che distruggono o danneggiano seriamente le loro proprietà. Gli incendi si tengono sotto controllo attraverso la gestione delle foreste e delle aree boschive. In cosa consiste questa attività di gestione? Tenere pulito il sottobosco, utilizzare in modo ottimale i pascoli, aumentare la distanza tra gli alberi, interrompere il potenziale cammino delle fiamme (ad esempio con la costruzione e la gestione delle strade anti-fuoco), spegnere gli incendi appena si manifestano.
Negli ultimi anni, l’estensione delle foreste è diminuita, e sembrerebbe anche che gli incendi siano diminuiti in percentuale nelle aree forestali rimaste. Ma spesso le loro conseguenze sono aumentate, e proprio questo è dovuto a effetto “umano”. Oggi si tende a pensare, non soltanto per quanto riguarda gli incendi, ma per tutti gli eventi estremi, che il principale effetto “umano” (il termine più corretto è “effetto antropico”) sia il cambiamento climatico, mentre ci sono diverse variabili umane significative, che riguardano la posizione e il valore delle abitazioni, la densità di popolazione, la distanza dalle strade e dalle zone abitate, ecc. Dal punto di vista statistico, si è visto che parametri come la piovosità e la temperatura sono poco correlati alla statistica degli incendi, mentre le altre variabili che ho citato sopra hanno una correlazione molto più significativa con i possibili danni di un incendio. (Syphard, Alexandra D., et al., 2017. “Human presence diminishes the importance of climate in driving fire activity across the United States”. Proc. Natl. Acad. Sci. 114 (52), 13750–13755)
L’effetto Occhio di Bue
L’effetto Occhio di Bue (Bull’s-eye) può essere applicato a molte tipologie di eventi estremi. Si tiene conto del fatto che una quantità crescente di persone e di loro proprietà vengono a trovarsi lungo il percorso del fuoco. Alcuni numeri per gli Stati Uniti: nel 2010, in Us c’erano 124 milioni di unità abitative, 7 volte il numero che c’era nel 1940. Negli stati dell’Ovest, le case nel 2010 erano 12,5 volte quelle del 1940. Se si considera l’intero territorio degli Stati Uniti, si può stimare che il 5% delle nuove case costruite tra il 1940 e il 2010 sono situate in zone a rischio di incendi; ma se ci limitiamo a considerare gli stati dell’Ovest, si vede che un terzo delle nuove case sono state costruite in zone a rischio medio-alto di incendi. Un tentativo di schematizzare questo effetto (in questo caso si riferisce a una inondazione, ma è applicabile a qualsiasi evento catastrofico, ndr) si può vedere in figura.
Alcuni studi sui costi degli incendi sono stati fatti in Australia nel periodo tra il 2010 e il 2019. I risultati hanno confermato che a partire dal 1925 i morti e le case distrutte sono aumentati. Ma se il numero viene normalizzato, tenendo conto dell’aumento della popolazione e del numero di case nelle aree a rischio, si vede che non c’è più un aumento significativo (anzi, la tendenza sembra essere verso una diminuzione, per quanto non significativa). A livello degli Stati Uniti, è stato calcolato che dal 2000 in poi, le aree bruciate aumenteranno dell’8% entro il 2050, e del 33% nel 2100. Ma questi aumenti sono sempre piccoli se paragonati all’aumento del 300% nella quantità di case che si prevede saranno costruite nelle aree a rischio nello stesso lasso di tempo. Quindi si deve dedurre che pianificare dove costruire le abitazioni ha un effetto più importante dell’emergenza climatica sugli incendi. Un ragionamento simile può essere applicato a diversi tipi di eventi estremi.
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