Quanto è costato fino a ora il ponte sullo Stretto di Messina? Per capirlo dobbiamo prima ricostruirne la storia in una biografia validata da documenti e numeri, scrivono Milena Gabanelli er Massimo Sideri sul Corriere della Sera di lunedì 5 dicembre. La risposta serve a capire se è vero, come ha detto il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, che costerebbe ormai più non costruirlo che costruirlo.
La storia
Il primo a studiare la possibilità di un collegamento fu il ministro dei Lavori pubblici del governo La Marmora, Stefano Jacini, nel 1866. Un secolo dopo, nel 1965, il ponte divenne una copertina della Domenica del Corriere.
Ma il vero conto, e dunque costo del Ponte, inizia nel 1968 quando l’Anas indice un concorso di idee internazionale denominato Progetto 80. Tra i vincitori c’è l’ingegnere Sergio Musmeci che pensa a un ponte a una campata con due piloni alti 600 metri sulla terraferma per evitare di dover lavorare sul disastroso fondo marino dello stretto: instabile e a forma di V. Lo stesso Musmeci però non lo considera fattibile perché non esistono ancora materiali adatti a garantire la sicurezza per sostenere quei 3 km. Troppe vibrazioni legate al vento.
Nonostante questo, la Legge 17 dicembre 1971 n. 1158 promulgata con il governo democristiano Colombo (presidente Saragat) istituisce la nascita di un progetto dell’Iri. Nel testo legislativo si legge che si sarebbe dovuto tenere conto del concorso di idee effettuato dall’Anas con legge 28 marzo 1968 n. 384. È questo l’atto fondativo del ponte, anche se bisognerà aspettare l’11 giugno del 1981 per vedere nascere la società «Stretto di Messina Spa». E nascerà in un vuoto di potere: il governo Forlani era caduto in maggio e il governo Spadolini si instaurerà solo il 28 giugno.
Il bilancio vero dei costi
Inizia a partire da qui il tassametro dei costi per lo Stato. Tra il 1981 e il 1997 vengono spesi 135 miliardi di lire per vari studi più o meno di fattibilità. Ma è il governo Berlusconi che passa ai fatti. Su progetto a campata unica con Pietro Lunardi ministro delle Infrastrutture, nel 2003, viene aperto un primo cantiere a Cannitello per spostare la rete ferroviaria che passa proprio dove viene fatto un buco grande come un campo da calcio e profondo 60 metri per l’ancoraggio dei cavi. Il conto totale in euro, al 2003, è già salito a oltre 130 milioni (fonte Corte dei Conti). Nel frattempo erano già morte sia l’Iri che la Democrazia Cristina che avevano avviato l’idea. La società Stretto di Messina finisce dunque dopo vari cambi per essere controllata nel 2007 all’81,84% da Anas (oggi parte di Ferrovie dello Stato) e partecipata da Rete ferroviaria italiana (Rfi), Regione Calabria e Sicilia. Con il ritorno a Palazzo Chigi di Prodi il progetto frena, per ripartire due anni dopo con il Berlusconi IV. Di pari passo c’è il braccio di ferro fra i sostenitori: porterà sviluppo al Mezzogiorno e sarà una grande attrazione turistica. E i detrattori: bisogna prima modernizzare i trasporti della Sicilia e Calabria. Sopra le parti una nutrita schiera di ingegneri pone l’annosa questione legata alla sicurezza dell’infrastruttura.
La «Stretto di Messina» va in liquidazione
Arriviamo al 2013, quando il premier Mario Monti (siamo in piena austerity e pulizia dei conti) chiude la partita e la Società Stretto di Messina viene messa in liquidazione e affidata a Vincenzo Fortunato, avvocato e già capo di gabinetto del ministro Giulio Tremonti nel secondo governo Berlusconi, ma anche di Lunardi e Di Pietro. Lavora anche per lo stesso governo Monti e conosce molto bene la storia del Ponte, dunque sembra essere la persona giusta per chiudere la faccenda velocemente: per lui è previsto un compenso da 120 mila euro l’anno come parte fissa, più 40 mila di parte variabile. Ma proprio i bilanci della società in liquidazione sono una fonte certa per i veri costi del ponte.
All’atto della messa in liquidazione la società aveva terreni per 3.739 euro, 127 mila euro di macchinari e 312,3 milioni di valore della concessione Ponte sullo Stretto, 78 milioni di depositi bancari e postali e 6.241 euro in cassa. Il costo più alto è quello per il personale: 2 milioni tra salari, stipendi e oneri sociali. Si legge sempre nel bilancio 2013: SdM ha promosso un’azione di risarcimento del danno nei confronti del contraente generale a motivo dell’illegittimo recesso esercitato. Si tratta dell’attivo patrimoniale: 312 milioni più un incremento del 10% per danni subiti. Dunque 342,7 milioni tra buchi fatti nel terreno e continui studi di fattibilità che diventano 325,7 milioni perché 17 milioni erano già stati versati. Possiamo dire che al 2013 il costo effettivo del ponte è di 342 milioni. Soldi che devono essere pagati nonostante la messa in liquidazione e nonostante non valgano più nulla perché il commissario è tenuto a recuperare tutto ciò che può per risarcire i creditori (lo Stato stesso). Il governo Monti aveva previsto 300 milioni di euro per coprire le pretese della società sperando che venisse chiuso tutto in 12 mesi. Nove anni dopo la Stretto di Messina è ancora in piedi. Durante il Governo Conte II la legge di bilancio ne aveva previsto la chiusura forzosa ma l’articolo era stato stralciato.
I risarcimenti da pagare
Nel bilancio sempre del 2013 emerge anche un contributo in conto impianti pari a 1,3 miliardi. In realtà di questa cifra lo Stato paga solo circa 20 milioni perché successivamente il Cipe li sopprime, ma questa voce rimane una indicazione di quanto possa costare sul serio il Ponte: 1,3 miliardi solo di impianti. La società dal 1 gennaio 2014 non ha più dipendenti (ma sono stati spostati in Anas dunque sempre a carico dello Stato) e anche gli uffici sono stati ridimensionati. La stazione meteorologica di Torre Faro a Messina è stata ceduta all’Università di Messina. Quello che sappiamo dunque è che la società Stretto di Messina che si doveva occupare della costruzione del ponte è stata messa in liquidazione nell’aprile del 2013 con un costo fra penali e indennizzi per 342 milioni. A cui vanno aggiunti gli oltre 130 milioni fra studi e gestione degli anni Ottanta e Novanta. Ci sono poi gli indennizzi di parti terze sempre a carico dello Stato poiché non sono stati fatti accantonamenti a garanzia in quanto – si legge – si ritiene che le cause «debbano trovare tutte copertura nelle risorse pubbliche». Infatti il consorzio che aveva vinto l’appalto Eurolink, capitanato da Salini Impregilo e che oggi si chiama WeBuild ed è partecipata anche da Cdp (dunque sempre dallo Stato), ha in sospeso un appello con una richiesta di 657 milioni di euro. Nell’ultima semestrale chiusa di Webuild si ricorda che oltre al processo la società ha sollecitato il pagamento di altri 60 milioni per la copertura di costi già sostenuti. Un’altra causa da 90 milioni era stata intentata da Parsons, colosso dell’ingegneria civile Usa.
Eurolink durante le fasi processuali ha ripetuto che sarebbe disposta a rinunciare alle pretese in caso di riapertura del progetto. Ma resuscitare una gara fatta 15 anni, peraltro con una società (WeBuild) che nel frattempo è diventata partecipata da Cdp, senza indirne una nuova, sarà problematico per almeno due ragioni:
1) sono cambiati tutti i parametri economici, ed è altamente probabile che gli altri concorrenti impugneranno,
2) di mezzo ci sono dei finanziamenti europei.
La «Stretto di Messina» riesumata
Tirando le somme: se tutto andrà male (per i processi bisogna attendere il 2023) il conto del ponte che non si è fatto sarà di circa 1,2 miliardi. Il costo del ponte che oggi si vorrebbe fare, secondo il Ministro Salvini, è di 6-7 miliardi. Da dove arrivi questa stima non si capisce poiché di concreto ancora non si è mosso nulla. C’è invece un rimpallo di 50 milioni. Sono i soldi messi a disposizione dalla ministra De Micheli nel 2020 al gruppo di lavoro per valutare soluzioni alternative al ponte a campata unica. Lo scorso giugno l’allora ministro Enrico Giovannini aveva mandato l’esito del gruppo di lavoro a Rfi, chiedendo di fare un nuovo studio di fattibilità e trasferendo a loro i 50 milioni.
Ora nella nuova legge di legge di bilancio, all’art 82, si legge che il ponte è un’opera prioritaria ed «entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge la Società Stretto di Messina rinuncia a tutte le pretese nei confronti della pubblica amministrazione, e viene revocato lo stato di liquidazione in deroga a quanto previsto dal codice civile, mentre Rfi e Anas (in quanto soci della Stretto di Messina) sono autorizzate a fare un aumento di capitale di 50 milioni per riorganizzare la società». In altre parole: si riparte da dove eravamo rimasti, e i 50 milioni che dovevano servire al nuovo studio di fattibilità vanno a resuscitare la Stretto di Messina che, ricordiamo, sta subendo le cause di Eurolink. Anche i problemi però sono rimasti ancora quelli di Musmeci: 3 km esposti a venti e correnti molto forti, fondale e V e su una faglia ad alto rischio sismico: fino a 7.3 gradi Richter, come nel terremoto del 1908, quello che ha distrutto Messina. La buona notizia è che nel frattempo con il Pnrr sono stati pianificati 500 milioni nella rete di treni e traghetti per collegare più velocemente Calabria e Sicilia.
di Milena Gabanelli e Massimo Sideri
Fonte: DataRoom, Corriere della Sera 5 dicembre 2022