Storie di straordinaria Seniority: Gianni Bracciani, il signore delle piume

Pubblicato il 1 Novembre 2019 in , da redazione grey-panthers

Novant’anni e uno sguardo al futuro improntato all’ottimismo. Gianni Bracciani è un imprenditore milanese specializzato nella lavorazione delle piume d’oca. Da circa mezzo secolo serve le grandi griffe della sartoria mondiale — «tutte, dall’Italia alla Francia e agli Usa» racconta con orgoglio — e le forze armate. Tanto i pennacchi rossoblu dei cappelli da parata dei carabinieri e le piume sui caschi dei bersaglieri vengono lavorati nel suo piccolo stabilimento con nove dipendenti a Santo Stefano Ticino, hinterland di Milano.

Il capannone è in mezzo al verde di un parco di circa due ettari dove oche e anatre vagano di laghetto in laghetto. In fondo a un angolo compare una serra con circa cento bonsai, uno degli hobby — gli altri sono la caccia e lo scialpinismo — che Gianni pratica con passione. Poi c’è il lavoro, «in fondo anche questo un passatempo, seppure più impegnativo». «A me piace ancora sporcarmi le mani, mi piace da matti creare; mi sento sempre un ragazzino e penso che l’Italia abbia ancora bisogno di novantenni entusiasti come me» dice sorridendo mentre mostra l’officina che «contiene una quindicina di macchinari che ho inventato». Utensili «per cucire, per miscelare circa 2.000 colori, per togliere il calamo — ovvero il grosso “bacchettone” centrale — della piuma per alleggerirla». Ciascuna delle macchine è stata creata «per rispondere alle richieste degli stilisti. In fondo — riassume l’imprenditore — questo è il mio core-business: traduco in realtà, o meglio in ricami, ciò che i grandi sarti immaginano grazie ai loro disegni».

Gianni non ha brevettato le sue apparecchiature «messe a punto elaborandole di notte, appuntando l’idea improvvisa» è perché «non mi interessa: la mia è una lavorazione specialistica, forse unica, per cui credo che non esista l’interesse a duplicare le mie idee».

Nessuna delle 52 penne che compongono il mantello dell’oca viene buttata via. C’è persino chi si rivolge a Bracciani per chiedergli le piume da usare per la scrittura. Oltre alla lavorazione per l’alta moda — sotto il marchio «Bracciani piume» — c’è anche la produzione di piumini invernali prodotti con il logo «Manudieci». Un’intuizione nata «durante un’escursione sulla vetta del Gran Paradiso una quarantina d’anni fa. A un amico si strappò la manica di una giacca a vento e patì il gelo. Pensai fosse il caso di immaginare stoffe e imbottiture che avessero una maggiore qualità. E ora produco ogni giorno circa 150 capi che all’80 per cento finiscono all’estero».

 

La giornata di Gianni da almeno un cinquantennio è la stessa. Sveglia alle 6.30 e «dopo la lettura del giornale sull’iPad, assai comoda, raggiungo lo stabilimento in macchina». «Tutti i giorni lavoro almeno nove ore, un divertimento». Oggi i rapporti con i sarti sono tenuti dalla figlia Emanuela «dato che loro ormai chiedono sempre di lei. Io mi occupo del resto». Che è sempre impegnativo, «bollette e fatture da controllare, i macchinari da aggiustare per non parlare delle discussioni con i clienti in ritardo nei pagamenti».

La «dinasty» dei Bracciani ha cominciato a occuparsi di piume nel 1883 «con mio nonno Pietro, marinaio-giramondo che importava a Milano capi d’alta moda dalla Francia».

Ottone, il padre di Gianni, mise il figlio a lavorare in ditta «il 17 agosto 1944: imballavo pacchi a Luisago, dove eravamo sfollati. A casa avevamo nascosto un commerciante di piume ebreo che aiutammo poi ad espatriare in Svizzera, attraversando di notte la val d’Intelvi sino al confine. Quell’uomo è lo stesso che prima delle leggi razziali del 1938 vendeva al Duce i pennacchi per i suo cappelli». Pochi mesi «dopo la Liberazione papà mi spedì a Parigi, quando non avevo nemmeno sedici anni, intimandomi di non tornare se non avessi trovato clienti. Cosa che feci, imparando il francese, assai utile in seguito quando da commerciante divenni imprenditore avviando le mie lavorazioni».

Bracciani è interista, questo perché «da bambino vivevo in via Domenichino, non lontano da San Siro. Qui abitava anche Walter Chiari, più grandicello, sfegatato milanista e allora pugile di discreto livello: ci picchiava perché voleva che diventassimo rossoneri. Ma per ripicca noi crescemmo tutti convinti nerazzurri».

fonte: Corsera, 1/11/2019

di Alessandro Fulloni