Fare da soli la dichiarazione dei redditi: un inferno

Pubblicato il 15 Giugno 2012 in da redazione grey-panthers
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Compilare da soli la propria dichiarazione dei redditi è un’azione istruttiva per toccare con mano il linguaggio iniziatico, il groviglio normativo, la libidine della complicazione che permea fino al midollo la liturgia burocratica e l’insostenibile peso dello Stato regolamentatore, scrive Giuseppe Baiocchi. Racconto tragicomico di un contribuente alle prese con il Modello Unico e con l’ultimo incomprensibile balzello introdotto dal governo Monti, l’Imu.

Caro Direttore,

in questi giorni, come sempre, finiscono le scuole e si pagano le tasse. Confesso che da sempre mantengo l’empia presunzione di poterle “fare da solo”, senza l’aiuto delle legioni di ottimi specialisti (dai CAAF a stimati professionisti) ai quali è logico e abituale ricorrere. Il fatto è che resto recidivo in un antico “peccato d’orgoglio”, quando cioè mi capitò di chiedermi come mai, da cittadino normale, di medio ceto e di altrettanta media cultura, dovessi accettare come impossibile la sfida di preparare in ingenua solitudine la dichiarazione dei redditi.

È stato un lungo percorso costellato di errori e di imprecisioni, con una amministrazione fiscale che arrivava in sede di controllo qualche annetto dopo ad esigere rapidamente un “dovuto” incompreso o dimenticato e con calma ben olimpica a restituire in tempi molto meditati il sovrappiù versato o trattenuto in anticipo dal sostituto d’imposta.

È tuttavia una vicenda mai inutile e oltremodo istruttiva (soprattutto per chi vive della nostra professione) che nel corso degli anni ha fatto toccare con mano il linguaggio iniziatico, il groviglio normativo, la libidine della complicazione che permea fino al midollo la liturgia burocratica e l’insostenibile peso dello Stato regolamentatore.

Quest’anno, invero, c’è una punta di autoflagellazione in più: infatti un valoroso collega de Linkiesta ha avuto la cortesia (e magari un pizzico di malizia) di mostrarmi il vademecum con il quale gli capitava di dichiarare i redditi e pagare le tasse nel Regno Unito dove ha vissuto e lavorato per diversi anni. Una paginetta e mezza di istruzioni, secche, semplici e soprattutto chiare (anche la lingua inglese a dire il vero, aiuta). Ed è sovvenuta l’uscita dell’ineffabile Attilio Befera, maxi-direttore dell’Agenzia delle Entrate (e di Equitalia) che esternava il suo sogno di racchiudere appunto in una pagina e mezza le istruzioni per il contribuente italiano.

Ma se non lo fa lui, a chi tocca decidersi a disboscare? E invece qui le istruzioni per il più semplice modello Unico sono almeno 160 pagine fitte fitte raccolte in tre volumi. Adesso si consultano su internet, ma ancora i Comuni sono tenuti a stamparli gratuitamente e su carta non riciclata: intere foreste di alberi dilapidate per un coacervo di regole minute, di casi particolari, di eccezioni di categoria, di piccole lobbies tutelate con meschini privilegi, di incrostazioni normative sedimentatesi nel corso dei decenni e mai razionalizzate.

Non possiedo yacht, elicotteri o minareti, non posso fisicamente “evadere” o nemmeno “eludere”, come fanno quei campioni dello slalom tra le regole, che trovano nel mucchio le pieghe adatte per sfuggire legalmente a buona parte della pressione fiscale. Con il lavoro dipendente (e anche ora da pensionato) il Fisco conosce tutto e riceve in anticipo la sua succosa parte dagli enti eroganti. Non solo: se si entra nel sito dell’Agenzia delle Entrate, registrandosi come singolo contribuente, uno si ritrova già ampiamente schedato. Nella sezione “redditi percepiti” infatti non c’è soltanto il lavoro stabile, ma ogni minimo compenso saltuario (che per i giornalisti sono le collaborazioni episodiche, le comparsate tv, gli articoli occasionali). Eppure, pur avendo già tutto incrociato, il sadismo burocratico obbliga il misero cittadino a ricuperare le pezze giustificative e poi a cercare di capire in quale delle centinaia di caselle della dichiarazione ogni singolo e minimo provente vada sparpagliato.

Perché il profluvio massacrante di prescrizioni, allargate con continui commi su casi specifici e situazioni di favore rivolte a platee molto limitate, nasconde poi negli incisi e nelle parentetiche le regole invece più generali e stringenti. L’elenco sarebbe sterminato: un solo minimo esempio. Tra le spese detraibili al 19 per cento figurano anche le “spese veterinarie”. Volentieri versate all’epoca per interventi e cure sull’amatissimo gatto di famiglia, giunto poi alla fine naturale della sua vita. Ebbene sta scritto che sono detraibili in misura non superiore ad euro 387,34. Salvo poi aggiungere in codicillo che vale anche per questa voce la franchigia di euro 129, 11,ovvero la medesima franchigia che in un altro paragrafo si applica alle spese sanitarie per gli umani. Era così geniale scrivere subito che il limite massimo tassativo è in sostanza di euro 258,23?

Di simili arzigogoli è cosparsa l’intera giungla delle istruzioni, almeno un paio per pagina. Con un’ulteriore antipatica notazione: non c’è mai, cascasse il cielo, una cifra tonda, (anche se poi si pretende l’arrotondamento all’euro preciso per ogni rigo e colonna che deve riempire il povero contribuente). In realtà è come se la immensa macchina statale continuasse a ragionare ancora con la vecchia lira (limitandosi a convertire pari pari le sue sacrali disposizioni). Eppure sono almeno dieci anni che la lira non è più in vigore, un lasso forse brevissimo per la nostra burocrazia (basti pensare ai tempi eterni della giustizia). A meno che… a meno che, con disincantata preveggenza, i cervelloni della norma abbiano messo sempre nel conto che alla lira si sarebbe per forza tornati, data l’impossibilità a reggere la moneta unica europea per una economia zavorrata dallo schiacciante carico improduttivo e parassitario prodotto dalla complicazione e dalla moltiplicazione burocratica dello Stato.

Benedetti siano i farmacisti che, “obtorto collo”, rilasciano lo scontrino fiscale che il contribuente può in parte detrarre. Se avvenisse per ogni altra e sia pur minima transazione commerciale, riconoscendo al contribuente un suo legittimo “interesse” (in conflitto con il percettore) a pretendere fatture e ricevute, forse l’evasione fiscale non sarebbe quel mostro che azzoppa i conti pubblici. Invece essere onesti secondo le norme è a tal punto penalizzante che si preferisce lasciar perdere. Qui ormai si è costruito un meccanismo infernale per cui “non conviene” essere buoni, ma bisogna essere “buoni per decreto” e pure mazziati con le tasse. Chissà come mai negli altri paesi civili (dove si raccolgono gli scontrini su tutto e si detrae in conseguenza) l’evasione è limitatissima pur con poche norme e sanzioni certe. Il criterio liberale della “convenienza” nel rapporto con lo Stato è in Italia uno scandalo: perché la burocrazia avrebbe ben poco da fare e comanderebbe molto, ma molto di meno…

Pur con tutte queste illogiche vessazioni anche quest’anno la dichiarazione dei redditi e andata faticosamente in porto per la via telematica (che almeno salva in buona parte dagli errori di calcolo): ma è piombato in tempi strettissimi l’incubo dell’IMU, la nuova e ben pesante imposta municipale sugli immobili. È una tassa che rappresenta probabilmente un record mondiale quanto a oppressione fiscale e ad esplicito disprezzo dei cittadini (o meglio dei sudditi). Si vincerebbe probabilmente la sfida se si volesse trovare un altro Paese in tutto l’orbe terracqueo nel quale si decreta un’imposta così severa e così strafottente. Caro cittadino, si stabilisce, intanto paga un acconto robusto e alla svelta: poi pagherai entro l’anno un saldo che sarà certamente di più, ma che adesso non puoi avere il bene di sapere di quanto… Ma è il modo di trattare il popolo dei governati?

E poi la stangata IMU ha altre complicazioni paradossali: insiste sullo stesso bene, gli immobili, già tassati nell’ambito dei redditi prodotti,ma i calcoli si fanno con criteri e numeri completamente diversi. Dalla rivalutazione del 60% in un colpo solo del valore catastale fino alle aliquote cresciute e al vero e proprio schiaffo morale, per cui deve essere il singolo cittadino a calcolare e a dividere quanto di questo balzello va ai Comuni e quanto allo Stato. (Perché evidentemente per la Pubblica Amministrazione costava troppa fatica…).

Il carico dell’IMU è un salto improvviso e così repentino sui bilanci familiari da ampliare alla lunga la platea degli indigenti: ed è particolarmente odioso (al di là dei casi di palesi ingiustizie già emerse, come la botta di “seconda casa” attribuita agli anziani ricoverati o ai poliziotti comandati in trasferta) perché tocca e vulnera quel mattone su cui con tanti e prolungati sacrifici si è costruita per l’85 per cento delle famiglie quella sicurezza psicologica che trasmette l’idea della casa di proprietà.

E appaiono patetici (al punto da prendere il pubblico per i fondelli) quegli imbonitori che vanno in tv a squittire ogni sera che “ci vuole la patrimoniale”, “ci vuole la patrimoniale”… Come se l’IMU sugli immobili (e la sorella imposta di bollo sui risparmi) non toccassero non il reddito, ma il patrimonio… Peccato che questa vera e propria “patrimoniale” tocchi tutti indistintamente, e in particolare quei ceti medi e medio-bassi su cui si regge l’intera capacità produttiva del Paese, ceti già ampiamente impoveriti dai rincari generalizzati (benzina docet) e dall’incertezza sul futuro lavorativo…

Le tasse, come ci racconta la Storia, sono sempre un crinale decisivo: quando si rivelano ingiuste o eccessive o diventano del tutto incomprensibili, perdendo la loro logica razionalità, al popolo che se le trova da pagare, si innesca un meccanismo di rifiuto anche collettivo che va ben oltre il ricorrente mugugno dei tartassati. Non sono proprio più “le tasse bellissime”, come si permetteva di proclamare qualche anno fa il ministro Tommaso Padoa Schioppa (pace all’anima sua). Il punto di rottura, lo spartiacque a suo modo rivoluzionario, appare da diversi segnali non così lontano all’orizzonte. D’altronde non è un caso che da duemila anni stia scritto: “Temete l’ira dei mansueti…”.

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