Il nord Italia è da sempre la parte più produttiva del nostro Paese, sicuramente quella con più vocazione all’export. Proprio in questa parte del paese, aggredita particolarmente dalla crisi economica, si sta diffondendo l’idea che, tornando alla lira, tutti (o molti) dei nostri problemi troverebbero soluzione. Chi sostiene questa tesi ricorda, forse con la nostalgia legata alla giovinezza, le belle svalutazioni competitive che l’Italia faceva negli anni 70, 80 e anche all’inizio degli anni 90. Quelli erano tempi d’oro, si dice.
Ma quelle svalutazioni arricchivano veramente l’Italia? E oggi funzionerebbero?
Parto da quest’ultima domanda. L’economia italiana di venti e trent’anni fa era molto chiusa. Le frontiere erano impermeabili, i capitali non potevano liberamente circolare, la situazione geopolitica era completamente diversa (c’era il muro di Berlino), e non esisteva internet, che permette a capitali e informazioni di spostarsi in un click, producendo dove conviene di più. Oggi un imprenditore può produrre nella vicina Serbia (dove un operaio costa circa 300 dollari al mese) o nella lontana Cina, dove costa anche meno. Siamo sicuri che avendo la lira e potendola svalutare del 30%, saremmo di nuovo competitivi? E poi, ogni volta che si svalutava, tutto quello che veniva comprato all’estero costava di colpo il 30/40% in più, a partire dal petrolio fino alle tanto amate automobili tedesche. Le monete, tutte, di per se sono solo il termometro dell’economia. Svalutare vuol dire che il giorno dopo sei più povero rispetto al resto del mondo. Era proprio meglio quanto era cosí?
I mali dell’Italia sono prevalentemente di origine interna: corruzione, nepotismo, sprechi enormi, blocco dell’ascensore sociale, inefficienza della Pubblica Amministrazione, produzioni di bassa qualità o poco innovative, scarsa ricerca e sviluppo…e tanto altro. È molto comodo e auto assolutorio addossare tutti i problemi all’Europa, ma pensiamo veramente che sia così ?
Riflettiamoci
di Fabrizio Spada
Direttore della Rappresentanza a Milano