Internet parlerà arabo

Geopolitica del web Intervista a Fadi Chehadé, a capo della società che gestisce gli indirizzi. La rivoluzione delle grafie non latine

 Shabaka è un antico termine egizio che ha 2.700 anni di storia. Nel mondo arabo è ancora un nome comune, usato sia per i maschi sia per le femmine, e deriva da Shabaka Neferkare, «l’anima del Re è bellissima», un faraone del 700 avanti Cristo. Ma più che portatore di una qualche maledizione sembra dotato di poteri taumaturgici: fra tre mesi diventerà la parola più digitata nella lingua araba e da essa partirà la nuova geopolitica del web. Oggi Shabaka significa «il nome del re». Ma è anche il termine che nei Paesi arabi indica (inter)net: «.shabaka», dunque «.net» (o, meglio, il termine arabo di cui shabaka è la traslitterazione in caratteri latini) sarà il primo nuovo top level domain che l’Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers, l’ente che gestisce gli indirizzi internet e che, nella sostanza, è un governo della Rete) rilascerà a Natale.

Per la prima volta un popolo non latino potrà avere un sito scritto completamente in caratteri arabi. La stessa cosa accadrà subito dopo per gli ideogrammi cinesi e il cirillico. In tutto saranno 117 suffissi non latini.

Non è un caso che dopo anni di monopolio americano — e questa è sempre stata la critica mossa all’associazione defilata ma potentissima — la decisione sia stata presa da Fadi Chehadé, presidente e amministratore delegato di Icann da pochi mesi, un colto poliglotta cresciuto in quella Beirut «Parigi d’Oriente» che ancora si sente in qualche racconto di chi ha avuto la fortuna di vederla. La «politica estera» di Chehadé, ricco imprenditore con spiccate doti diplomatiche che ha ceduto la sua ultima azienda all’Ibm, è chiara: evitare una guerra fredda sul web con la formazione di due blocchi che sono riemersi con chiarezza nel caso del programma «spione» della National Secutiry Agency Usa, Prism.

L’Icann è fin dalla nascita al centro di polemiche. È nata come istituzione pubblica americana ed è sempre stata accusata di fare gli interessi delle corporation Usa. Ora non siete più espressione diretta del Tesoro americano ma l’influenza rimane forte. Non è arrivato il momento di una «Onu del web»?
«Io sono il primo a dire che il sistema non è più sostenibile. Ne sto già parlando con l’amministrazione di Barack Obama. Senza un modello di stakeholder multi-equal, dove tutti gli attori sono alla pari e nessun gruppo può influenzare gli altri, diminuirà la nostra legittimazione. Penso che la comunità dell’Icann con me abbia voluto scegliere una persona che potesse vedere l’organizzazione da fuori invece che da dentro. Quando sono arrivato il nostro staff, i processi, i contratti legali, tutto era Usa-centrico. Così da un solo quartier generale a Los Angeles ne ho aperti altri due, uno a Singapore e un altro a Istanbul. Sono centri operativi. Il nostro capo dello sviluppo globale, per esempio, è in Turchia: non negli Usa. Ma come cambiare? Dobbiamo ancora trovare il modo».

Internet sta cambiando non solo politicamente, ma anche dal punto di vista tecnico. Il nuovo protocollo dell’Ipv6 (l’algoritmo che definisce l’impronta digitale di ciascun sito) ha dato una seconda vita al web che stava scoppiando avendo raggiunto i 4,3 miliardi di domini dell’Ipv4. L’Ipv6 ha aperto all’infinito le possibilità di registrazione. Ma la proliferazione dei supporti e degli strumenti (device) che richiedono sempre più porte di accesso è una forma di democrazia?
«Prima di tutto in assenza dell’Ipv6 tante rivoluzioni che aspettiamo ancora, come l’”internet delle cose” (oggetti e luoghi connessi al web ndr), avrebbero avuto dei problemi. Senza questi numeri avremmo avuto limitazioni. Il numero dei device che vediamo adesso nel mondo è incredibile, anche in quello in via di sviluppo. Per cambiare ci vuole l’impegno delle aziende».

Che cosa manca?
«Più internet diventa mobile, più aumenta la domanda e dobbiamo preparare tutta l’infrastruttura per capire e fare le cose sull’Ipv6».

Lei ha parlato di infrastrutture. Abbiamo ritardi in alcune regioni, anche in Italia. Gli operatori telefonici si lamentano di dover investire molto per poi vedere i profitti passare a chi «utilizza» la Rete, come gli «over the top» (i cosiddetti Ott) Google, YouTube e Facebook. Che cosa pensa della discussione sui nuovi modelli di business, quelli detti del «sender pays», in cui si chiede proprio agli Ott come Google e come YouTube di partecipare alle spese?
«Quel dibattito mi pare superato. Noi cerchiamo una soluzione del mercato più che una forzatura delle lobby. Aziende come Telecom Italia devono trovare il modo di partecipare ai guadagni. Ne hanno le competenze. In Africa le aziende di telecomunicazioni iniziano a fare specialized Ott, i loro siti di successo».

A dire la verità le telecom europee ci hanno già provato, ma senza risultati, come quando anni fa si sono lanciate nella musica.
«Hanno le risorse e le possibilità. La vera opportunità è nelle loro mani. Ma capisco che hanno infrastrutture usate da altri e il perché della domanda di un cambio di modello. Però, invece di continuare questa battaglia, dovrebbero trovare una soluzione».

Pensa a una soluzione commerciale?
«Il mercato resta sempre la soluzione migliore».

Qual è la sua posizione sulla neutralità della rete? Il mercato sta andando in un’altra direzione, di fatto. Navigare su reti 4G, cioè più velocemente, già costa di più. È come avere una classe di navigatori A e una B.
«La Net neutrality torna alle origini del web, quando gli ingegneri volevano dare a tutti la stessa possibilità. È un equilibrio molto delicato. Non è la fine del mondo andare in un’altra direzione, ma rischiamo di perdere qualcosa di quello spirito nativo».

Una famosa copertina di «Wired» parlava della fine del web per l’arrivo delle app. I tablet e gli smartphone hanno accelerato questo sviluppo. Accadrà?
«No, penso che su internet abbiamo bisogno di diversi modi per trovarci: la ricerca, le application, ma anche un sito che conosco e dove vado per evitare 20 porte. Rimane l’unico modo per essere sicuri di sapere dove siamo. Tra poco partirà un grande programma e qualunque azienda, persona, governo, città potrà gestire tutti i domini che sceglie».

Avete già fatto una prima asta di nuovi «top level domain» nel 2012.
«Sì, cominceranno a essere operativi a Natale. È un grande progetto: la città di Pisa potrà avere il “.pisa” e davanti ogni cittadino potrebbe avere il suo nome. Così il sito fadichehade.pisa potrebbe essere un canale per dialogare e fornire servizi di e-government. Anche per le aziende potrebbe succedere la stessa cosa: fadichehade. blackberry sarebbe così un modo per tenere il contatto con il cliente. Come vede non credo che i siti scompariranno: cambieranno. In verità non sappiamo nemmeno come internet potrebbe andare avanti senza domini perché anche le app ne hanno uno senza che l’utente lo veda. Internet non è un network, ma migliaia di network collegati. L’unicità del web è data dal dominio. Solo così abbiamo sempre la garanzia che se scriviamo www.corriere.it arriveremo al sito giusto. È una questione di sicurezza e fiducia. Un motore di ricerca mi può portare a tanti “corriere” diversi».

La vendita dei suffissi a 185 mila dollari è stata criticata: siete un’associazione non profit.
«Sì, ho sentito. Ma era la prima volta, non sapevamo bene come farlo. È stato costoso fare un registro controllando tutte le aziende. Non vogliamo che dietro a siti “.pizza” magari non ci sia nulla. I soldi non usati li rimetteremo nella comunità. Forse il prezzo è stato un po’ alto, ma spero che già dalla prossima asta l’application fee sarà ridotto. Per ora ne abbiamo fatti un migliaio».

Tra questi primi che avete selezionato ce n’è qualcuno italiano?
«No, nessuno. I primi 117 suffissi (70 cinesi) sono non latini. Arabo, cinese, cirillico. Li abbiamo scelti per dar loro un vantaggio: per la prima volta potranno scrivere un sito interamente nella loro lingua. Fino ad oggi c’è sempre stata una parte in inglese».
Twitter @massimosideri

Massimo Sideri

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