Nonostante questo, il nostro sistema politico per decenni è stato immobile e i teorici che si sono confrontati attorno al tema hanno spesso sentenziato con superficialità che “internet ci rende stupidi” e che “la rete distrae dall’apprendimento”, in aperta opposizione con quanto dimostrato dalla maggior parte degli studi scientifici internazionali che, invece, hanno evidenziato i numerosi benefici dell’uso dei sistemi digitali in ambito formativo.
In questo complesso processo, allora, si propone come sempre più urgente la formazione di competenze specifiche negli insegnanti e negli educatori, con il fine ultimo di inserire le ICT, che, peraltro, fanno già parte degli scenari quotidiani dei cosiddetti “nativi digitali”, nei percorsi didattici scolastici di ogni ordine e grado.
La situazione attuale italiana, in effetti, non è affatto incoraggiante: in barba agli obiettivi prefissati, l’insegnamento del digitale (così come quello delle lingue straniere) è spesso affidato a docenti che non posseggono alcuna specializzazione e sono sempre più numerosi i corsi “intensivi” di informatica (spesso costosissimi) che promettono agli iscritti di apprendere in pochi giorni o settimane nozioni articolate che andrebbero in realtà ragionate e approfondite nel tempo.
Inoltre, le (scarse) risorse finanziare destinate dallo stato alle nuove tecnologie sono, troppo spesso, mal gestite: basti pensare, ad esempio, all’ingente dispendio di denaro (circa 93 milioni di euro) comportato dall’acquisto di lavagne interattive digitali che, clamorosamente, sono rimaste quasi del tutto inutilizzate.
Risultato? I nostri connazionali, quanto a competenze digitali e linguistiche, restano molto indietro rispetto alla media europea. Per fare solamente un esempio, si rileva che, in Finlandia, ben l’83% della popolazione tra i 16 e 74 anni usa abitualmente internet a fronte di uno stentato 50% registrato in Italia. A 12 anni i ragazzi finlandesi padroneggiano con disinvoltura l’inglese, con una pronuncia da far invidia a gran parte degli studenti italiani, e usano il pc non tanto per chattare, ma per approfondire, studiare ed imparare grazie ad Internet.
E allora, cosa si può (e si deve) fare per uscire da questa paradossale “impasse” tecnologica tutta italiana?
Bisogna, evidentemente, ideare nuovi modelli digitali e creare sistemi epistemologici ad hoc che seguano, passo dopo passo, le tappe dello sviluppo cognitivo dell’individuo, partendo dal bambino.
Come è già stato ampiamente dimostrato, in effetti, l’uso di software specifici in classe aiuta i giovanissimi apprendenti ad acquisire ciascuna delle abilità trasversali fondamentali (il problem solving, la decision making, il pensiero critico, la creatività e la cooperazione), nel pieno rispetto delle naturali fasi di crescita del bambino e dei tempi individuali.
Nel concreto, un primo passo potrebbe essere l’attuazione del modello “Bring your own device” (BYOD) che, permettendo l’utilizzo di dispositivi elettronici personali durante le attività scolastiche, potrebbe dare un reale incentivo all’innovazione didattica, rendendo gli studenti parte attiva della lezione e non più meri “uditori” da indottrinare.
Insomma, la vera “rivoluzione digitale” può (o, forse, deve) partire dallo Stato e dalla scuola.
di Cristina Calò e Maurizio Carmellini