La nostra produzione di giugno

In questa puntata il nostro abituale appuntamento con il DIARIO CREATIVO e il racconto “Il Dono di Anna“, di Massimo Caldarone, Elena Castagna, Rita Reale

Aveva appena finito di leggere quei fogli scritti a mano che erano posati sulla sua scrivania. Si era appoggiato pesantemente alla spalliera della poltroncina e guardava fuori dalla vetrata dello studio. La vista era mozzafiato: l’intero lago di Lugano era un solo fotogramma. Ma in realtà non stava vedendo nulla. La sua vista era concentrata sul passato. Settantaquattro anni della sua vita in un unico puzzle di immagini.

I primi sedici anni in un paesino della Sicilia, la scuola al mattino e il lavoro come aiuto manovale il pomeriggio, per dare una mano alla famiglia a integrare la paga del padre, operaio in un’officina di coloranti, e della madre, sarta alle prese più con la propria malattia che con i rammendi alle gonne delle contadine del paese.

La partenza per la Svizzera in compagnia del cugino Rolando, venti anni e primo figlio di una nidiata di cinque ragazzini, tutti maschi, cresciuti insieme con lui e sua sorella Maddalena, di quattro anni più giovane. 

Lui, Angelo La Barbera, vedeva il cugino Rolando come si vede un fratello maggiore e quando questi aveva raccontato ai suoi che stava per partire per la Svizzera per trovare un vero futuro aveva insistito con i genitori per poterlo seguire lassù.

A dire il vero non aveva dovuto metterci molto per convincerli: i suoi avevano già capito che il loro paese era troppo stretto per Angelo, che le gambe del loro ragazzo erano troppo lunghe per le strade impolverate di Ribera.

Arrivati a Lugano Rolando e Angelo avevano trovato una stanza presso una famiglia di compaesani che viveva decorosamente in città, con un chiosco di frutta nella periferia Nord, nella zona più popolare.

Rolando, che già a casa sua amava seguire l’esempio della madre e cucinava specialità di pesce, aveva trovato posto come aiuto cuoco in un ristorante sul lungo lago mentre lui, meno esperto delle cose della vita ma più voglioso di provare nuove esperienze, si era offerto come “portabastoni” presso il locale Golf Club Lugano.

Ben presto era diventato il caddie preferito dell’ing. Moreschi, ricco imprenditore immobiliare Svizzero che rideva alle sue battute spensierate e ascoltava con attenzione le sue strane idee su come concentrare in poche mani le attività immobiliari altrimenti disperse in varie famiglie locali.

A ventidue anni era già diventato il braccio destro dell’ing. Moreschi e a trentuno era riuscito a convincere i soci a lasciargli le redini della società, che nel frattempo si era trasformata in un’impresa internazionale con interessi nella compravendita e ristrutturazione di aziende in crisi. A quaranta anni era considerato uno degli uomini più ricchi d’Europa.

L’anno prima aveva sposato Anna Cavalieri di cinque anni più giovane. Talento precoce nel campo musicale, Anna era stata primo violino al teatro alla Scala di Milano.

Il loro matrimonio era stato l’evento mondano dell’anno e quando Anna aveva pubblicamente deciso di lasciare la sua carriera musicale, i cuori di centinaia di fan si gonfiarono di lacrime. Purtroppo una lenta malattia stava consumando il suo fisico e lei si era resa conto che, oltre a non poter avere figli, non avrebbe più potuto dedicarsi a tempo pieno al suo grande amore. Il fatto che non potesse avere dei figli non aveva invece toccato l’animo di Angelo, che aveva quindi a malincuore accettato la richiesta della moglie di adottare prima uno e poi in seguito altri due bambini. Ma quando Anna non aveva più resistito all’avanzare del male Angelo aveva lasciato che i suoi giorni passassero ancora più solitariamente di quando condivideva con lei qualche raro momento rubato al proprio lavoro.

Questi avvenimenti, così come molti altri, apparivano ora parte di un unico disegno: leggendo quei fogli rivedeva la sua vita con occhi diversi, più attenti ai sentimenti, suoi e dei suoi familiari.

Possibile che non riuscisse mai a essere puntuale, Riccardo non si capacitava di come il fratello soffrisse di un menefreghismo cronico per tutto ciò che fosse regola, legge o semplice buona educazione. Lui non lo sapeva ancora ma avrebbero dovuto incontrare Marina a Milano e con lei proseguire per Lugano. Se non si fossero dati una mossa però, si sarebbero presto trovati imbottigliati nel traffico.

Ed eccolo che usciva dal portone, trent’anni all’anagrafe, quaranta sul viso ma ancora meno nel cervello. Riusciva ad apparire sciatto e trasandato anche indossando una giacca e una camicia, ammesso che non fosse la stessa della sera precedente. Dallo sguardo si intuiva una serata intensa, seguita da una notte praticamente insonne.

–    Ok sono in ritardo, sono imperdonabile. Ma ti prego non gridare, sto uno schifo mi si spacca la testa. A proposito auguri fratellone, quanti sono? Quaranta?

–    Spiritoso! Nottata allegra?

–    Sono stato da Berry’s a suonare, gente di merda, non capiscono niente di rock, ho dovuto strimpellare tutta sera Baglioni. Volevo spararmi.

–    Non è male Baglioni

–    Lascia stare, non hai mai capito niente di musica. Quei poveri cristi a cui insegni non si sono ancora ribellati?

–    Quei poveri cristi, come li chiami tu, sono i miei studenti di seconda media e a loro insegno a suonare e cantare, non a strimpellare una chitarra facendo versi e smorfie!

–    È una partita persa. Hai sentito Marina? Novità?

–    L’ho sentita. Il solito. Lavoricchia qua e là, ma niente di serio. Ti ricorda qualcuno?

–    Fottiti.

Non erano una novità quegli scambi sarcastici tra fratelli. In fondo nessuno dei due era molto soddisfatto, né fiero di sé. Una passione viscerale per la musica che non aveva mai trovato una vera applicazione concreta. Eredi mutilati, così si autodefinivano quando affrontavano quell’argomento. Dalla madre avevano appreso un’arte che non avevano saputo mettere a frutto.

–    Ma com’è che ti è venuta questa idea di festeggiare il compleanno insieme? Non sapevo che i trentaquattro anni fossero una tappa significativa.

–    Mmm.. veramente non è proprio quello il motivo dell’incontro.

–    Cioè? Hai spostato il compleanno? Ah ah ah!

–    No, è che a Milano ci troviamo con Marina in stazione per andare insieme a Lugano.

–    A Lugano? Perché?… No cazzo, ma ti sei rincoglionito? Ma vuoi davvero festeggiare con il vecchio?

–    Non esattamente. Papà ci ha chiesto di andare da lui. Ha qualcosa di importante da comunicarci.

–    Ma non me ne frega un cazzo di quello che ha da comunicarci. Non ci ha mai comunicato niente in tutta la vita. Mi spiace tanto per il tuo compleanno, ma per me la festa finisce qui. Fammi un piacere, lasciami al primo Autogrill che faccio l’autostop e torno indietro.

–    Aspetta, non fare lo scemo ascolta, sembrava sincero, davvero. Diamogli una chance. Che ne sai tu?

–    Cosa pensi che voglia? Farci sentire dei falliti, dirci che siamo una delusione, che nessuno di noi ha seguito le sue onorevoli orme eccetera eccetera. Ma fammi il piacere! Non sono certo in vena di sorbirmi le solite amorevoli paternali. E poi non si è nemmeno degnato di chiamarmi. Chi ti dice che io sia invitato?

–    Non sapeva come rintracciarti, mi ha pregato di parlarti e… convincerti.

–    E tu avresti inventato tutta la storia della festa di compleanno per questo?

–    Non saresti mai venuto altrimenti.

–    Questo è certo.

Quelle furono le ultime parole. Per quasi due ore regnò un silenzio ingombrante in cui pensieri ed emozioni contrastanti si affacciavano e si scalzavano.

Riccardo si sentiva in colpa, e sperava con tutto se stesso che le previsioni del fratello fossero smentite. Lui era un buono, di quelli che nessuna avversità o malignità riescono a scalfire. Riusciva a trovare sempre il meglio in tutte le persone. Quando poi si trattava di Paolo era addirittura vergognosa la sua dedizione. Gli aveva fatto da genitore dopo la morte della madre e si sentiva male all’idea che stesse buttando via la sua vita in quel modo.

Paolo invece avrebbe voluto urlare e prendere a pugni il cruscotto per la rabbia che aveva in corpo. Quel rammollito, inguaribile buonista di suo fratello riusciva a mandarlo in bestia. Sarebbe stata una giornata d’inferno, e il suo mal di testa non faceva che peggiorare. Stupido di un idiota era stato. Come sempre, come per tutte le cose della sua vita non riusciva a darsi una regolata. Non ricordava neanche quanti bicchieri si era scolato la sera prima, accompagnati da strane pasticche. Sarebbe tornato a casa a pezzi e ci avrebbe messo chissà quanto a riprendersi. Perché non riuscivano a capire che al vecchio di loro non fregava niente. Quanto gli mancava sua madre in questi momenti, lei era stata l’unica a credere in lui, ma era stato per troppo poco tempo. Non era stato sufficiente per prepararlo ad affrontare il mondo da solo.

–    Paolo? Svegliati, siamo arrivati a Milano. Marina ci sta già aspettando dentro al bar. Scendi qui, io cerco un parcheggio.      

Il treno l’aveva preso al volo, ma non era certo un fatto inconsueto, lei era sempre in ritardo, le cose fatte all’ultimo minuto, sul filo del rasoio. Era salita sbuffando e ansimando, su una carrozza a caso, e ora cercava il suo posto, augurandosi di non avere nessuno a fianco, era stanca, sperava di riuscire a riposarsi un po’.

Di guidare non se l’era proprio sentita, con quel che costa la benzina poi, era proprio da pazzi, così aveva prenotato il Freccia Rossa, magnifico, in tre ore sei a Milano, dove aveva appuntamento con quegli squinternati dei suoi fratelli.

Il treno filava veloce, tolse il libro dalla borsa, ma non lo aprì neppure, tanto di leggere non aveva voglia, piuttosto avrebbe cercato di riordinare i suoi pensieri e capire cosa avesse in mente suo padre. Da quanto non lo vedeva, tre, quattro anni, chissà,  forse era finalmente invecchiato, a dispetto della cura maniacale che dedicava al suo aspetto.

Si erano anche sentiti poco, negli ultimi anni, eppure loro due, al contrario dei suoi fratelli, non avevano mai avuto scontri violenti. Se pensava alla sua famiglia, tante immagini si sovrapponevano nella sua mente.  Nel campo dei sentimenti vigeva un gran disordine, i  loro rapporti non erano mai stati facili, con un padre come quello, sempre troppo preso da qualche nuovo affare per star dietro ai figli. Se ne era bellamente fottuto di loro, diciamocelo chiaramente, e ora era un po’ tardi per rimediare, per cercare di richiamarli all’ovile. Lei aveva la sua vita, e non è che sempre le piacesse, lavorava in quel locale solo perché, di tanto in tanto, riusciva a salire sul palchetto e cantare un po’. La sua voce profonda vibrava sulle note del jazz e lei, in quei momenti, si sentiva finalmente bene, in pace con se stessa.

A Bologna i suoi pensieri erano già un cespuglio senza forma, aveva voglia di una sigaretta, ma si trattenne, e provò ad aprire il libro, che richiuse subito.

E se fosse ammalato, pensò con una nota di sgomento, no, per favore, ci siamo già passati con mamma! Mamma. Un groppo le salì alla gola, inaspettato. Quando c’era mamma tutto era diverso, persino lui sembrava essere migliore.

Buttò una sguardo fuori dal finestrino, la giornata era chiara e soleggiata, la campagna scorreva piatta, un mosaico di colori che si perdevano in lontananza.

Le tornò in mente, all’improvviso, il suo ventesimo compleanno, l’ultimo passato con mamma, il vestito elegante comperato per l’occasione, la festa a bordo piscina, , i suoi fratelli, gli amici, la musica, la torta con le candeline pronte per essere accese, e lui che non arrivava. Quel giorno per la prima volta aveva avuto netta una percezione: per suo padre  lei non contava  niente.

Che sto facendo, perché ho accettato di andare a Lugano, non ho voglia di vederlo, cosa vuole ora da me, da tutti noi. Torno a Roma, quando arrivo a Milano prendo il primo treno e me ne torno. Questo volerci tutti assieme a casa, senza dare spiegazioni, è un’altra delle sue manifestazioni di egoismo, io non ho tempo da perdere, con questi giochetti, non ho proprio niente da dirgli che già non sappia: sua figlia, proprio quella su cui aveva riposto mille aspettative, aveva miseramente fallito.

Tirò fuori dalla borsa uno specchietto rotondo, con un sospiro ispezionò il suo volto, riconobbe con facilità l’aggressione degli anni, osservò i propri occhi. Stanchi.

Dovette prendere atto dell’inarrestabile opera di demolizione che il passare delle stagioni aveva compiuto, e non solo sui suoi lineamenti, ma su tutta la sua persona.

Eppure era un tipo tosto, tenace, sapeva di avere una intelligenza vivace, ma queste qualità le erano servite a poco, alla fine. Dopo l’inutile laurea, un matrimonio andato velocemente a rotoli, si era lasciata sopraffare dal fluire della vita, senza più riuscire a governarla. Anche la sua passione per il canto e le sue indubbie capacità non avevano dato esiti concreti; cosa faceva, alla fine, la barista cantante tuttofare in un locale del centro, ma senza più sogni, senza ambizioni, senza il coraggio di una scelta differente.

Il  treno iniziò la sua frenata, gli archi della Centrale grigi contro un cielo insolitamente azzurro; si stava alzando, quando il telefono nella tasca della giacca cominciò a vibrare.

–    Dove sei? La voce di Riccardo la svegliò dal torpore in cui era piombata.

–    Quando arrivi?

Di colpo l’assalì la nostalgia, la visione di loro bambini, con quella mamma così generosa che li aveva fortemente voluti e accolti con un amore infinito le tolse per un attimo il respiro.  Ma sì, ci vado, dopotutto cosa mi costa, ma ci vado per te, mamma, perché so che ti farebbe piacere.

 All’arrivo di Marina con il Freccia Rossa l’abbraccio tra i tre era stato sincero e qualche lacrima era rimasta dietro gli occhiali di Riccardo. Poi il fratello le aveva preso la valigia e, senza proferire neanche una parola, si era incamminato verso il parcheggio, seguito dai fratelli che si tenevano a braccetto.

Adesso che stavano percorrendo l’autostrada Milano-Varese si erano tutti chiusi nel proprio silenzio. Era una gara a chi avrebbe parlato…. per ultimo. Paolo fu sorprendentemente il primo a rivolgersi ai fratelli.

– Cosa gli diciamo quando lo vediamo? Ciao, quanto tempo! Ti trovo bene sai? Porti magnificamente i tuoi anni …..

Fu Marina a rispondergli, con un tono quasi materno.

– Stai tranquillo, sarà papà a parlare. Quando mi ha chiamato per questo invito, anche se non ha voluto anticiparmi nulla, ho capito che la cosa è importante, per lui ma anche per noi. Credo che nessuno sprecherà tempo con dei convenevoli del tutto superflui.

– Bene, così ce la sbrighiamo in fretta. Ho una serata con il gruppo e non vorrei mancare.

Furono le uniche parole che si dissero i tre fratelli finché non arrivarono al cancello della villa.

Era apparentemente tutto identico, il viale di erica rosa punteggiato di azalee fucsia, la villa bianca in fondo con le colonne rivestite di rose e l’ingresso di castagno imponente e intimidatorio. Eppure la sensazione che provarono tutti i fratelli nell’attraversare quei luoghi dolorosamente familiari era inspiegabilmente diversa, come se l’aria attorno fosse più leggera.

Non fecero nemmeno in tempo a scendere dall’auto che la porta si aprì. Il viso degli ospiti si paralizzò quando sull’uscio apparve, invece di Geremia, il fidato maggiordomo, un uomo anziano, con i capelli arruffati, vestito in modo sobrio ma non ricercato, che li accolse con un caldo sorriso.

Si allungò nel porticato e strinse in un caloroso abbraccio Marina, prendendole il borsone e invitandola ad entrare. Fu poi la volta di Riccardo che, impacciato e irrigidito, si fece cingere con forza. Paolo che osservava la scena interdetto fu tentato di ritornare sui suoi passi e aspettare che quel teatrino dell’assurdo finisse. Ma il padre, intuendo il suo imbarazzo, gli tese la mano e gli sorrise.

–    Figliolo sono felice di vederti.

Paolo non riuscì a sostenere quello sguardo, non c’era mai riuscito, gli scivolò accanto e sgusciò in casa.

L’uomo fece strada, attraversò il salotto e uscì sul retro. Un giardino da favola si aprì ai loro occhi. Un prato verde pieno di margherite, ginestre e rododendri in un meraviglioso disordine floreale. Dove era finito il giardino inglese, maniacalmente curato e invalicabile?

Un tavolo rotondo in ferro battuto con cinque sedie li aspettava apparecchiato con focaccine alla zucca e tè verde. I fratelli all’unisono si girarono attorno cercando istintivamente la madre. Un ricordo così vivo e doloroso, le domeniche mattina, loro quattro, il padre sempre occupato altrove che facevano colazione tra chiacchiere, racconti e risa.

Ma Anna non c’era, almeno non di persona, al suo posto era posata una rosa bianca e una lettera.

–    Ragazzi, so che tutto vi sembrerà strano, forse irreale ma negli ultimi due mesi sono accadute cose che hanno cambiato la mia vita, direi stravolta. Non sono più la stessa persona. So che per voi sarà difficile capire e accettare. So di non potervi chiedere nulla. Sono stato una padre orribile…

–    Non sei stato affatto un padre. Marina e Riccardo si girarono cupi verso il fratello che tremava e si contorceva le mani in grembo.

–    No, Paolo ha ragione. Un padre non vi avrebbe mai detto certe cose, né vi avrebbe voltato le spalle come io ho fatto. La mamma si è sempre occupata di voi, con lei condividevate una complicità e un’ intimità che non capivo e di cui io non ero capace. Forse vi ho anche odiati, e vi giuro che mi faccio ribrezzo per questo, ma pensavo che mi steste portando via il suo amore e le sue attenzioni. Nessuno mi aveva mai amato così e io non sono mai stato in grado di ricambiarla come si meritava.

–    Ci hai chiamato qui per dirci che adesso a settantaquattro anni hai capito come si fa il padre? Non è un po’ tardi?

–    Paolo adesso smettila, lascialo parlare

–    Vi ho chiamati per farvi leggere una lettera.

–    Quale lettera?

Paolo era sempre più nervoso, sembrava stesse per esplodere.

–    Stavo riordinando gli spartiti di vostra madre e tra le pagine ho trovato questa lettera. È indirizzata a tutti noi e vorrei tanto che la leggeste.

Marina per tacito consenso la prese dal tavolo e cominciò a leggerla ad alta voce.

Le lacrime le rigavano il viso quando con voce straziata concluse

…- e sono sicura che farete tesoro delle mie parole e saprete essere quella famiglia meravigliosa che io ho sempre visto in voi. Con tutto il mio amore Anna.

Paolo si alzò di scatto rovesciando il suo bicchiere di te verde, corse per il giardino e, raggiunto un cespuglio di ginestra, vomitò tutto quanto aveva in corpo: la sua notte di baldoria, le frustrazioni, la rabbia e il dolore repressi per tanti anni.

Riccardo, che solitamente sapeva sempre come riempire i vuoti e consolare cuori spezzati, era senza parole, rosso in volto piangeva sommessamente tenendosi le mani sulla bocca.

Fu il padre ad alzarsi e avvicinarsi lentamente al figlio. Gli tese nuovamente la mano offrendogli con uno sguardo tutta la comprensione e le scuse di cui non era mai stato capace. Paolo alzò la testa, tremava come una foglia e singhiozzava, fissò per un istante eterno il padre e prese la sua mano. Seguì un abbraccio violento, spasmodico e disperato.

Le luci si spensero e calò il silenzio; la sala era gremita e attenta, e un applauso accolse Marina, fasciata da un lungo abito nero, quando apparve in scena.

– Amici, grazie di essere qui con noi, questa sera, ad ascoltare la nostra musica, anche se, in realtà, proprio nostra non è: infatti è l’ultimo dono che quella donna meravigliosa che è stata Anna Cavalieri ha fatto ai suoi figli. A lei è dovuto e dedicato questo concerto, a cui noi tanto teniamo. Ora vi auguro un piacevole ascolto, e vi chiedo un applauso anche per i miei accompagnatori.

Dalle quinte si materializzarono i suoi fratelli, che dopo un breve inchino presero posto ai loro strumenti. La voce di Marina si levò, calda e profonda, e Angelo ebbe un tuffo al cuore. La musica di Anna interpretata dai suoi figli: eccoli, finalmente uniti, sul palcoscenico, a dar vita a qualcosa di incredibile e insperato. Anna, Anna aveva capito tutto, come sempre. Aveva lasciato quello spartito sapendo che loro tre lo avrebbero amato immediatamente, che sarebbe diventato loro. Paolo aveva curato gli arrangiamenti, Riccardo da subito si era seduto al piano e l’aveva interpretato con struggente bravura e Marina ci aveva messo le parole e, soprattutto, la sua incredibile voce. Lui, dal canto suo, aveva prodotto e finanziato lo spettacolo.

Ora erano lì tutti e quattro, a dar vita a una serata in onore della grande musicista che era stata Anna, circondati da amici venuti da ogni dove e da appassionati richiamati da un evento così singolare.

Un concerto per Anna Cavalieri.

Angelo sorrise, con le lacrime agli occhi, e finalmente si sentì in pace.

redazione grey-panthers:
Related Post