Al termine del vertice di questa notte, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu respinge, almeno per il momento, l’opzione militare e indica la via diplomatica come la strategia prioritaria per affrontare la crisi in Libia. Secondo le Nazioni Unite esistono ancora gli spazi e i tempi per una mediazione politica. L’obiettivo sarebbe quello di favorire la nascita di un governo di unità nazionale propedeutico alla stabilizzazione e alla lotta al terrorismo. L’Italia, che insieme a Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Spagna e Germania aveva firmato un messaggio congiunto a favore della soluzione politica, si è detta pronta ad assumere un ruolo di guida nell’iniziativa Onu e contribuire al monitoraggio di un cessate il fuoco e al mantenimento della pace. L’Egitto, principale sostenitore della linea interventista, ha proposto che venga quantomeno revocato l’embargo sulle armi per il governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale, posizione appoggiata dal premier al–Thini. E’ ancora possibile un accordo tra le fazioni? Nonostante il grande effetto mediatico, l’ISIS rappresenta solo uno dei fattori che determinano la situazione attuale della Libia. Molti di questi hanno cause profonde e origini lontane che vanno da una debole identità nazionale libica alle eredità della guerra civile del 2011. In un paese dove decine di milizie controllano porzioni più o meno ampie di territorio e dove esistono de facto due parlamenti e due governi, serve innanzitutto, sostiene Arturo Varvelli, ISPI, una visione politica a lungo termine che favorisca il dialogo tra le fazioni locali e proprio l’accresciuta minaccia del terrorismo islamico potrebbe favorire i negoziati in corso da tempo come afferma Paolo Magri, direttore ISPI, in un’intervista su Rai Tre (min 2:45). Quali i rischi di un’azione militare? Secondo l’analisi contenuta nella nota redatta dall’ISPI per il Parlamento italiano, una missione militare potrebbe essere addirittura controproducente favorendo, in mancanza di un cessate il fuoco tra le due principali parti in causa, una convergenza dei gruppi islamisti, di varia natura, contro l’occupazione straniera. Solo un serio impegno diplomatico potrebbe quindi favorire la stabilizzazione del paese e riparare alla situazione di caos che si è venuta a creare dopo l’intervento Nato del 2011 e della quale ha approfittato l’ISIS. Quale il ruolo degli USA? Nell’ultimo fronte di crisi apertosi in Libia spicca indubbiamente la passività degli Stati Uniti. Secondo Mario del Pero, Science Po, è difficile dare una spiegazione netta di questo atteggiamento. Tuttavia, nella posizione statunitense agisce indubbiamente la difficoltà di relazionarsi a una situazione fluida e mutevole, oltre che il desiderio di evitare errori, anche di comunicazione, simili a quelli compiuti rispetto alla Siria. Inoltre, continua del Pero, incidono valutazioni politiche e la speranza di non dover trasformare la Libia in un nuovo fronte di dibattito interno, alimentando il convincimento già forte tra l’opinione pubblica statunitense che in Medio Oriente la passività di Obama non abbia prodotto risultati migliori dell’attivismo di Bush. Qual è l’obiettivo di al-Sisi? L‘Egitto, con l‘appoggio dei militari libici, è in guerra contro gli islamisti che controllano Tripoli, ovvero l‘ultimo baluardo della Fratellanza musulmana in Nord Africa. Ancora una volta la strategia del presidente al–Sisi per cementare l’opinione pubblica interna è quella di eliminare l’islamismo politico (che in Libia ha legami più ambigui con il terrorismo rispetto all’Egitto) con il pretesto di compiere azioni contro i miliziani jihadisti. Sembra che nel vuoto politico libico la comunità internazionale non cercherà di ostacolare direttamente al–Sisi, nonostante questa strategia abbia fin qui contribuito ad alimentare il terrorismo jihadista, come rileva Giuseppe , Università di Pavia e Bocconi, spianando la strada al consolidamento del potere del controverso presidente egiziano.