Ieri, interpellato a Parigi, il Presidente della Repubblica ha detto che Mario Monti, essendo senatore a vita, non si può candidare alle elezioni. E che potrà ricevere, dopo il voto, la richiesta di “un contributo o un impegno”. “’Monti non è candidabile’” è il titolo di apertura del Corriere della Sera, “’Monti non si può candidare’” quello de La Repubblica, “Napolitano stoppa la lista Monti” per La Stampa.
Europa: “Napolitano vuole Monti fuori dalla gara”
Il direttore di Libero interpreta le parole di Napolitano così: “Re Giorgio vuole Monti al Colle e Bersani premier”.
In evidenza sulle prime pagine anche l’assalto di tifosi ultras romanisti ai tifosi del Tottenham, in un pub romano. “Roma, raid ultrà e cori razzisti. Cancellieri: la violenza crescerà”, scrive La Repubblica.
La Stampa: “Cancellieri: arresto differito per le violenze di piazza”.
Il Sole 24 Ore apre con il via libera della Camera alla legge di stabilità: “Irap, detrazioni, esodati: tutte le novità per imprese e famiglie. Fondi alla ricerca dai tagli agli incentivi. Slitta il sì al bilancio”. In prima pagina anche il vertice europeo sul nodo del bilancio della Ue: “Monti: sui fondi Ue ci opporremo a soluzioni inadeguate per l’Italia”, scrive Il quotidiano di Confindustria.
Il Fatto quotidiano dedica il titolo di apertura al suicidio di un quindicenne: “Lo chiameremo Luca, Martedì scorso si è impiccato. Frequentava il secondo liceo scientifico a Roma. Forse era gay,fors voleva solo sfidare il suo ambiente vestendosi di rosa e con le unghie laccate. Alcuni amici accusano: su Facebook lo hanno messo alla gogna e lui non ha retto. La scuola: da noi non c’è omofobia”.
Napolitano, Monti
Secondo Marzio Breda, sul Corriere della Sera, la scelta del Presidente Napolitano di non sottrarsi, ieri a Parigi, alle domande sulla situazione italiana, è stata dovuta alla volontà di “spezzare” una “convulsa rincorsa preelettorale nel nome di Mario Monti (evocato entusiasticamente o astiosamente a seconda dei fronti)”, una rincorsa da “fermare” per tentare di “proteggere gli ultimi mesi della legislatura”, per “sterilizzare polemiche che si deve giudicare improprie al pari di di certe appropriazioni inopportune e in qualche caso forse anche indebite” e per “tutelare il profilo di neutralità forte e anche di autorevole standing internazionale di una riserva della Repubblica che dalla prossima primavera potrebbe essere richiamata in servizio, per diversi incarichi”. Non solo premier, ma anche superministro dell’economia, “oppure, chissà, prossimo capo dello Stato (senza escludere possibili approdi europei”. Napolitano ieri ha anche detto che si dimetterà con diverse settimane di anticipo rispetto alla scadenza del suo mandato, appena le Camere avranno eletto i loro organismi istituzionali (nei primi giorni di aprile).
Secondo un altro articolo del quotidiano milanese “il premier non chiude a un suo impegno”. Nel senso che sulle parole di Napolitano “Monti non è del tutto d’accordo”. Intanto perché – pare abbiano detto “non lontano dagli uffici del premier”, “non ci sembra che un senatore a vita non si possa candidare alla Camera ed optare per questa, se eletto”. “Ma il dato è politico, non tecnico. E la candidatura di cui si discute è quella a Palazzo Chigi, non certo a Montecitorio”. E la divergenza con Napolitano sarebbe sulla eventuale “benedizione” delle liste che si richiamano alla agenda Monti.
Secondo Maurizio Belpietro, su Libero, ad interpretare il pensiero di Napolitano ci ha pensato nei giorni scorsi Bersani: visto che la legge elettorale non sarà probabilmente cambiata, e il Pd con il solo 35 per cento dei voti potrebbe avere il 55 per cento seggi, e l’opposizione sarà ridotta “in mille coriandoli”, lo scenario potrebbe essere: “Monti sul Colle, Bersani a Palazzo Chigi. Vendola vicepremier con delega alla famiglia: questo il futuro da incubo che si delinea nei prossimi mesi, dopo che i sogni di gloria di Casini e di Montezemolo, ma anche da Riccardi e di tanti tecnici montiani, sono stati spazzati via dall’intervento del Capo dello Stato”. Secondo Belpietro Napolitano insomma ha rimesso “in panchina” Monti, facendo così “un gran favore alla squadra con la maglia rossa, la sua, la quale si vede agevbolata dalla messa a bordo campo del suo più temibile avversario, l’unico che avrebbe potuto batterla”.
Stefano Folli, sul Sole 24 Ore, scrive: “Non è chiaro perché Pierluigi Bersani sia così contento delle parole di Napolitano a Parigi. A meno che il segretario del Pd non fosse tanto preoccupato per l’ipotesi di una cosiddetta ‘lista Monti’ da sentirsi sollevato ora che questa possibilità è evaporata. Ma era mai esistita?”. Secondo Folli la possibilità non è mai veramente esistita, e l’intervento di Napolitano “è sembrato togliere dall’imbarazzo lo stesso Monti”. L’uscita del Capo dello Stato “è inusuale, come è fuori dall’ordinario l’intera vicenda politica italiana. Ma il logoramento di Monti è un lusso che il Paese non può permettersi, e il rischio è proprio questo”.
Secondo Il Foglio, ancora su Monti, “Napolitano sembra dire ai partiti: non potete sfruttare il suo nome per le elezioni ma potete – o meglio, dovete – tenere da conto Monti anche per il prossimo governo”. Non a caso il Quirinale ha fatto notare che “Monti ha uno studio a Palazzo Giustiniani, dove potrà ricevere chiunque, dopo le elezioni, vorrà chiedergli un contributo, un parere, un impegno”.
Produttività
L’accordo siglato due giorni fa sulla produttività tra le parti sociali – con l’autoesclusione della Cgil – prevede che il governo metta a disposizione oltre due miliardi di sgravi per il salario nel periodo 2013-2015. La Stampa scrive che il prossimo passaggio concreto sarà il varo di un decreto della presidenza del Consiglio: così verranno esplicitate le regole sulla cui base verranno effettivamente attribuiti i bonus di detassazione che renderanno più pesanti gli aumenti salariali negoziati a livello aziendale o territoriale. L’accordo parla di limitare lo sconto fiscale ai lavoratori con redditi inferiori ai 40 mila euro anni. Proprio con La Stampa ne parla il ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera, che così spieg il patto: “Imprese e sindacati hanno confermato il valore del contratto nazionale, ma hanno deciso di spostare al secondo livello tutto quel che riguarda la produttività, uno degli elementi più importanti che determina competività e crescita. L’accordo permette aumenti di salario detassati dove c’è spazio per farli e non costringe invece le imprese in difficoltà a concederli senza averne i mezzi. Questo è un passo fondamentale: la produttività non è un fattore generico di settore o di Paese, ma qualcosa che varia per ogni azienda”. Passera spiega anche che “per i contratti di secondo livello spetterà adesso a un decreto del Presidente del Consiglio, che scriveremo continuando a parlare con le parti sociali, individuare le caratteristiche per la detassazione. Il tempo degli sgravi a pioggia, che vanno a tutti, è finito. I nostri soldi andranno a quei contratti che in modo dimostrabile creino maggiore produttività”. Passera si rammarica della mancata firma della Cgil: “è un grandissimo peccato che la Cgil, per sue ragioni, non abbia firmato. Io credo fermamente nella unitòà sindacale, come dimostrano tutte le mie precedenti esperienze, ma penso che la concertazione non possa essere confusa con il diritto di veto da parte di nessuno”. La segretaria Cgil Camusso dice che questo accordo farà abbassare, anziché alzare, gli stipendi, e il ministro risponde: “Mi sembra ovvio che ridurre le tasse su parte dei salari significa aumentare il reddito dei lavoratori. Quello che la Cgil paventa è che nei settori o nelle aziende dove non c’è recupero di produttività la contrattazione di secondo livello non spinga le retribuzioni. Ma attenzione: in questi anni proprio il fatto di scollegare gli aumenti salariali dagli aumenti di produttività ci ha portato ad uno spread, una differenza negativa di produttività per dipendente, che in alcuni settori ci mette fuori mercato. Abbiamo bisogno di aziende in grado di competere nel mondo e crescere: senza di loro non si crea occupazione”.
Il Foglio dedica una intera pagina all’accordo sulla produttività siglato dalle parti sociali: “Monti e i conservatori concertativi. Produttività, riforma da festeggiare ma accolta a baffo moscio”. Il quotidiano raccoglie i pareri di Sergio Soave, Giuliano Cazzola, Michele Magno e Pietro Ichino. Secondo Soave è stato il governo a forzare, fino a far saltare, quella specie di “patto degli scettici” che si era tacitamente stipulato tra Giorgio Squinzi e Susanna Camusso. Per Giuliano Cazzola il Pd di Bersani è preoccupato del no Cgil e di un sindacalismo ostruzionistico in tema di sviluppo economico. Il giuslavorista e senatore Pd Ichino ritiene che l’accordo vada nella direzione giusta, ovvero quella del decentramento, della contrattazione collettiva, e di un maggiore collegamento tra retribuzione e produttività. Tuttavia ricorda che il decentramento della contrattazione era già ampiamente legittimato dall’articolo 8 del decreto legge del 2011 voluto dal governo Berlusconi: da un punto di vista tecnico-giuridico, quindi, questo accordo non sarebbe stato necessario. Ma è accaduto che le confederazioni sindacali abbiano deciso di “cancellare politicamente” quella norma, perché voluta dal governo Berlusconi: “Il sistema delle relazioni industriali – secondo Ichino – se vuol difendere la propria autonomia e la propria funzione di governo” dovrebbe funzionare “etsi politica non daretur”, cioé “mantenendosi totalmente indipendente dagli interessi di quella o questa parte politica”.
Gaza
Umberto De Giovannangeli, su L’Unità, offre ai lettori un’intervista al leader di Hamas, Khaled Meshaal. Che viene così introdotta: “Veste i panni del ‘generale’ vincitore della ‘guerra di Gaza’. Parla come se fosse lui, e non Abu Mazen, il vero presidente dei palestinesi”. E’ con lui che la diplomazia internazionale e il premier israeliano Nethanyahu hanno dovuto negoziare la tregua: “e già questo -dice Meshaal- è una vittoria di Hamas. Per anni hanno cercato in tutti i modi di annientarci: hanno assassinato il nostro fondatore (lo sceicco Ahmed Yassin, nrd.) e molti dei nostri eroici combattenti; hanno provato con le odiose punizioni collettive inflitte ad una popolazione colpevole ai loro occhi di aver scelto Hamas nelle libere elezioni del 2006”. Meshaal elogia il presidente egiziano Morsi: “Ha compreso le ragioni della resistenza palestinese e si è comportato da grande leader. A differenza di Mubarak, non ha sacrificato la causa palestinese per compiacere l’America e i sionisti”. Il presidente Morsi, ricorda De Giovannangeli, viene dai Fratelli musulmani, di cui Hamas, alla sua nascita, è stata una costola: “Un legame che ha resistito nel tempo -dice Meshaal- e che oggi è ancora più forte. I palestinesi, e non solo Hamas, vedono nel presidente Morsi un sostenitore della causa palestinese, e lo stesso si può dire per i leader dei tanti Paesi arabi e musulmani che hanno sostenuto concretamente la nostra esistenza”. Quali sono i punti dell’accordo sul cessate il fuoco che Hamas considera espressione della vittoria? “Lo stop agli omicidi mirati e all’invasione. L’apertura di tutti i valichi, e non solo di Rafah”. Lei ha ringraziato l’Iran per il sostegno militare: “E’ così, ma non è solo l’Iran ad averlo fatto. Una cosa è certa: se non ci sarà pace a Gaza, non ci sarà neanche a Tel Aviv”. Nei giorni scorsi il presidente Abu Mazen ha dichiarato che è giunto il tempo della riconciliazione con Hamas: “A chieder l’unità è il popolo palestinese -risponde Meshaal-. L’unità che si realizza nella resistenza all’occupazione e nel prendere atto del fallimento di una strategia che ha agevolato le mire espansionistiche del nemico”.
La Repubblica intervista Yossi Alpher, che ha alle spalle 12 anni nel Mossad ed è stato consigliere di Ehud Barak per il negoziato israelo-palestinese. Dice che dall’accordo sulla tregua esce rafforzata Hamas, “con un ruolo da protagonista e una forma di riconoscimento”. Il premier Netanyahu, aggiunge, ha raggiunto forse uno dei suoi obiettivi, ovvero “emarginare il presidente palestinese Abu Mazen e la sua richiesta di riconoscimento della Palestina all’Onu”. Hamas ha conquistato un riconoscimento indiretto, da parte di Netanyahu e anche sulla scena internazionale: “in questi giorni -dice Alpher- tutti erano a colloquio con i suoi leader: dal presidente egiziano Morsi al premier turco Erdogan agli inviati del Qatar. E nella stanza accanto c’era il Mossad”.
Il Foglio, in prima pagina, si chiede: “E’ questo l’Egitto garante di pace?”. E scrive: “Il mondo arabo e gli Stati Uniti celebrano la leadership del Cairo nella mediazione tra Israele e Hamas. Peccato per tutti quei missili che passano. Il presidente Morsi approfitta subito della festa per farsi dittatore”. I missili cui fa riferimento Daniele Raineri sul quotidiano sono quelli che attraversano l’Egitto e provengono dall’Iran: missili a lunga gittata, che Teheran nega di aver fatto viaggiare lungo la rotta Iran-Sudan-Egitto-tunnel-Striscia di Gaza. E due giorni fa il capo delle Guardie della Rivoluzione iraniana Ali Jafari ha detto all’agenzia Isna che Teheran non ha fisicamente trasferito i razzi Fajr-5 a Hamas, ma solo la tecnoologia necessaria a produrre i missili in loco. Ieri il premier di Hamas, Ismail Haniyeh, ha ringraziato in conferenza stampa il gopverno iraniano per aver contribuito a “far urlare Israele di dolore”. E il leader di Hamas Meshaal ha ringraziato Teheran specificamente per aver fornito i Fajr-5, secondo quanto riferisce Raineri.
Su Il Sole 24 Ore ci si occupa del presidente egiziano: “Morsi si prende i pieni poteri”. D’ora in avanti le decisioni del presidente saranno inappellabili davanti alal magistratura. Morsi ha dato “una spallata alla transizione egiziana” e ad un colpo sulla scena internazionale ne segue uno su quella interna. E’ stato sostituito il Procuratore Generale ed il suo successore ha deciso un nuovo processo per i generali accusati di aver causato la morte di manifestanti a Piazza Tahrir. Commenta Mohamed el Baradei, che si era candidato alle presidenziali e ora è all’opposizione: Morsi è “un nuovo faraone”. Un’analisi di Alberto Negri, di fianco, sottolinea come sia il premier turco Erdogan “il modello del nuovo faraone”: la sua determinazione ricorda la presa del potere del premier di Ankara, che riuscì a scalzare i militari.
Su La Stampa: “Morsi si autonomina Faraone”, “il presidente egiziano amplia i propri poteri fino a renderli ‘inappellabili’”, ma“l’annuncio della riapertura delle indagini sulla morte dei manifestanti non placa la rabbia dei ‘rivoluzionari’”. In questi giorni ci sono stati scontri tra attivisti e polizia, e la piazza non accenna a placarsi.
di Ada Pagliarulo e Paolo Martini