Le aperture
La Repubblica: “Giappone, la grande paura nucleare. Si teme la fusione di un reattore: situazione drammatica ma non sarà una Cernobyl. Paese in ginocchio, razionata l’elettricità. Già oltre 10 mila le vittime. Tre centrali a rischio, radioattività altissima. Il premier: la tragedia più grave da Hiroshima”. A centro pagina la Libia: “Gheddafi piega gli insorti, l’esercito verso Bengasi. Rivoltosi isolati. Petrolio, aumenti record delle bollette”.
Il Corriere della Sera: “Emergenza in quattro centrali. Esteso l’allarme per i reattori surriscaldati a rischio fusione. Prevista un’altra scossa devastante. Cade la Borsa di Tokyo”. “Il Giappone come dopo la guerra”. “Nessuna speranza per diecimila dispersi”. L’editoriale, firmato da Sergio Rizzo, è titolato “Il nucleare e noi”. In prima anche: “Gheddafi si riprende le città della Libia”, e “Da Alfano svolta sul processo breve”, nel senso che il Guardasigilli sarebbe orientato a sganciare gli interventi legislativi sulla giustizia dai processi che riguardano Berlusconi.
Il Giornale: “‘Coraggioso ma un po’ matto’. Così si definisce Berlusconi per aver messo a punto la riforma della giustizia. E il caposcorta lo scagiona su Ruby: ‘Fu una normale telefonata’”. L’editoriale è firmato da Magdi Cristiano Allam: “Le rivolte arabe non sono battaglie per la democrazia”, il titolo. A centro pagina un articolo di Stefano Zecchi: “Se l’atomo fa più paura dello tsunami. Da Hiroshima alla Guerra Fredda, ecco perché il nculeare evoca solo distruzione
La Stampa: “Giappone, 10mila morti. Paura per le radiazioni. Molti stranieri in fuga dal Paese, da oggi l’energia è razionata. Allarme in tre centrali nucleari. Cinque italiani non si trovano. Il premier: mai una tragedia così dal 1945”.
Il Sole 24 Ore: “Il fisco spinge sulle Procure”. “False fatture e dichiarazioni infedeli le contestazioni più frequenti”: spiega il quotidiano che i reati tributari segnalati alle Procure sono cresciuti dell’80 per cento tra il 2008 e il 2010.
Giappone
Per il leader dei verdi europei Daniel Cohn Bendit, che viene intervistato da La Repubblica, il dramma giapponese “è la tragica conferma che l’addio all’atomo civile è un dovere dell’umanità verso le generazioni future”, “il Giappone aveva la tecnologia di sicurezza più sviluppata. In Italia, in Francia, la sicurezza assoluta non esiste”. Per quel che riguarda il nostro Paese, Cohn Bendit dice: “Conoscendo il rischio terremoti in Italia, sarebbe un crimine da voi tornare al nucleare”.
L’editoriale del Corriere della Sera, firmato da Sergio Rizzo, sottolinea che non può essere la “comprensibile emotività” suscitata dalla tragedia in Giappone a determinare scelte fondamentali di politica energetica e tuttavia ricorda che dopo il referendum antinucleare del 1987 si parlò dell’impegno ad imboccare la via dell’energia pulita: “Siamo invece diventati il Paese europeo più inquinante, più dipendente dagli sceicchi, e con le bollette più care”. Fino a che, dopo aver riempito le tasche dei petrolieri, ci si è accorti che la Germania produceva settanta volte più energia solare dell’Italia”. Essendo penosamente al palo nel campo delle rinnovabili, “per recuperare terreno abbiamo concesso incentivi fin troppo generosi a chi le produceva, salvo poi chiudere i rubinetti dalla sera alla mattina”. La maggioranza ha scoperto questa priorità nel 2008, in tempo per le elezioni, “eppure oggi l’Agenzia per la sicurezza non ha ancora una sede” e i suoi componenti si incontrano al bar. Da vent’anni “aspettiamo inutilmente un piano energetico nazionale”.
Su La Repubblica si spiega che l’allarme in Giappone è scattato otto secondi prima: grazie alla tecnologia di allarme rapido molti giapponesi hanno ricevuto sul cellulare un messaggio di allerta tra gli otto e i sessanta secondi prima della scossa. Tv e Radio hanno interrotto i programmi per dare l’allarme. I treni ad alta velocità, allertati in via informatica, si sono fermati.
Giustizia
Alla manifestazione in difesa della Costituzione era presente anche il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che viene intervistato tanto da La Stampa che da La Repubblica. A La Stampa dice: “A Roma, sabato, io ho partecipato a una manifestazione che era senza sigle politiche, in una piazza in cui non ho visto bandiere di partiti”. E aggiunge: “Oltre che un diritto, credo che sia anche un dovere del magistrato far sapere ai cittadini qual è il dissenso rispetto a un progetto di modifica della Costituzione che incide gravemente sui diritti dei cittadini. E questo nel rispetto delle prerogative di ciascuno dei poteri dello Stato. Il legislativo fa le leggi, ma prima che lo diventino è giusto manifestare dubbi, perplessità e pericoli”.
Nello stesso senso le dichiarazioni a Repubblica: “La magistratura non vuole sostituirsi al potere legislativo”, ma critica una “disinformazione massiccia”, “la stessa che anni fa attaccò Paolo Borsellino, quando fece una denuncia pubblica sul calo di tensione nella lotta alla mafia”.
Il ministro Alfano, tuttavia, ieri, sulla partecipazione di Ingroia alla manifestazione, ha “frenato”, secondo La Stampa, annunciando che non vi sarà nessun procedimento disciplinare contro di lui: “Non chiederei mai a un magistrato di dimettersi”. Come invece fanno numerosi esponenti del Pdl.
Il Corriere riferisce anche della “frenata” sul processo breve arrivata ieri dallo stesso Alfano. Intervistato da Lucia Annunziata, ha detto: “Proporrò il ritiro della norma transitoria sul processo breve”, anche perché “non ho mai considerato la legge sulla ragionevole durata del processo come una norma ad personam verso Berlusconi”.
Parallelamente, restando al Corriere, si spiega che Pierferdinando Casini, sulla giustizia, ha deciso di giocare una offensiva su due fronti: da una parte incalza il governo e il ministro Alfano (come ha fatto ieri sulla norma transitoria del processo breve, ottenendone lo stralcio), dall’altra fa da pungolo nei confronti del Pd, invitandolo a non ritirarsi sull’Aventino. Il Presidente della Camera Fini conferma la linea del Terzo Polo, quella di andare a vedere le carte del governo, “perché non è una riforma ad personam”, ma la Carta Costituzionale si può cambiare “non a colpi di maggioranza”.
Sul Giornale, parlando del “dialogo con il Terzo Polo”: “Processo breve, Alfano apre a Casini: ‘Ritireremo la norma transitoria’”.
Critico resta Il Giornale su Fini, che, secondo il quotidiano, “ormai parla come Veltroni”, sintetizzando così il suo atteggiamento: “Apro al dialogo, ma anche no”.
Da segnalare sullo stesso quotidiano un verbale citato dai difensori del premier relativo all’interrogatorio del caposcorta della sicurezza di Berlusconi. L’agente telefonò al capo della Questura di Milano e sottolinea che quella notte nessuno avrebbe costretto la polizia a rilasciare Ruby.
Libia
Parla della “confusione occidentale” nella partita con Gheddafi Renzo Guolo su La Repubblica: sottolinea quanto siano diverse le vicende libiche da quelle tunisine o egiziane, poiché in qualche modo Gheddafi aveva ragione quando affermava “la famiglia Gheddafi è la Libia”, essendo la sua influenza molto più ampia di quanto fosse quella dei due vicini deposti. “Inoltre la Libia è meno permeabile alla pressione esterna degli altri due Paesi nordafricani”. Gheddafi ha così capito che poteva giocare la carta del resistere, potendo anche contare sulle convergenze di Mosca e Pechino all’Onu. Ciò che sorprende è l’atteggiamento dell’Occidente, dapprima precipitatosi ad appoggiare entusiasticamente i rivoltosi, poi a riconoscerli, infine abbandonandoli alla loro sorte.
Dell’atteggiamento dell’Occidente sulla questione libica si occupa anche Enzo Bettiza su La Stampa: “Ogni ora che passa cresce sempre di più il riconosoldimento del regime repressivo del Colonnello”. Soltanto l’intervento unanime della comunità internazionale avrebbe potuto arrestare la riscossa del rais. Ma l’unanimità non c’è stata, non c’è, ed è azzardato sperare che ci sarà nei prossimi giorni”. L’occidente è diviso in tre blocchi: quello interventista di Francia e Bretagna, quello più neutralista di Italia e Germania, ed un terzo, attendista, rappresentanto dagli Stati Uniti. Il risultato è una impasse esemplificata dalla questione della no-fly zone. E alla “inerzia oratoria dell’occidente, si sommano, giustificandola, le ormai storiche fibrillazioni di cui danno spettacolo le Nazioni Unite: tutti sanno che il problema della no-fly zone, quando e se sarà portato al Consiglio di sicurezza, verrà con ogni probabilità bocciato dai veti o aggirato dai sofismi di Cina e Russia. Si capisce meglio, invece, la prudenza con cui Roma e Berlino hanno cercato di trattare “una crisi che non definirei ‘rivoluzionaria’, ma, piuttosto, un condensato spontaneo di collere tribali contro una tirannide tribale e personale insieme. Il tutto, come era in parte prevedibile, non poteva che insabbiarsi in una rivolta disperata e abbandonata a se stessa”.
Su Il Giornale Magdi Cristiano Allam firma un editoriale dal titolo: “Le rivolte arabe non sono battaglie per la democrazia”: “Mi domando se il sedicente ‘Consiglio nazionale di transizione’ corrisponde effettivamente alla alternativa democratica garante dei valori inalienabili alla vita, alla dignità o alla libertà”, oppure se sarà solo “una versione più edulcorata di un sistema di governo sostanzialmente autoritario, condiviso dai partiti di opposizione, in primis gli integralisti islamici, in cambio della spartizione del potere”. Il dubbio coinvolge non solo la questione libica, ma in generale le rivolte nel Maghreb, e Allam critica “un’ideologia di stampo sessantottino che si infervora per i moti di piazza e le rivoluzioni attribuendo loro automaticamente ed acriticamente una valenza democratica”. Quanto al possibile appoggio ai ribelli libici, si chiede se bombardamenti mirati o no-fly zone si tradurrano nell’avvento della democrazia, da dove siano spuntati all’improvviso armi e miliziani che stanno sfidando Gheddafi. E per parlare di Tunisia o Egitto: “Non è cambiato nulla, perché il potere resta saldamente nelle mani delle forze di sicurezza e dell’esercito”, impegnato a coinvolgere l’opposizione, concedendo un ruolo più significativo agli integralisti islamici. Sullo stesso quotidiano, si sottolinea come, per uscire dal caos libico, è necessario negoziare con Gheddafi: il suo eventuale recupero potrà avvenire solo se sarà costretto a dialogare con i ribelli.
Nei giorni scorsi i quotidiani hanno sottolineato come dietro la “svolta” del presidente Sarkozy sulla Libia, ci fosse il filosofo francese Bernard-Henry Lévy. Oggi è quest’ultimo a spiegare, dalle pagine del Corriere della Sera, come sia stato “giusto” il riflesso di Sarkozy – per cui Lévy ricorda di non aver votato – nel momento in cui ha proceduto al riconoscimento del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi. Un riflesso “giusto” che a Lévy ricorda Mitterand: in particolare “il giorno in cui, in circostanze tragicamente simili, quando la Bosnia bruciava, lo chiamai da Sarajevo per annunciarlgli che avrei portati da lui il presidente bosniaco Izetbegovic”.
E poi
Obama sta per andare in visita in Brasile, sabato prossimo, ed è il suo primo viaggio in Sudamerica. In questi due anni – scrive Il Sole 24 Ore – il “nemico” Chavez ha fatto progressi con la costruzione dell’Alleanza Alba (Bolivarian Alliance for the americas) che include Bolivia, Venezuela, Ecuador, Cuba, Antigua, Dominica, Saint Vincent, Granadine e Nicaragua. Dopo il Brasile, Obama visiterà il Cile, El Salvador, ma la tappa più importante è quella brasiliana, anche perché in questi anni la Cina ha superato gli Usa come primo partner commerciale. E perché questo Paese, per arginare il flusso di valuta straniera, è favorevole all’idea di imporre barriere all’ingresso dei capitali, cosa che non dispiace nemmeno a certe autorità americane. Ancora al possibile rapporto con il Brasile di Dilma Roussef è dedicato un altro articolo del Sole, dove si spiega come la nuova presidente abbia invertito la rotta rispetto al suo predecessore Lula, che aveva aperto all’Iran di Ahmadinejad e al Venezuela di Chavez.
(Fonte: La Rassegna italiana di Ada Pagliarulo e Paolo Martini)
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riporto dall'Unità. (insieme agli altri crolli non sfugga questo)
la Cultura crolla. Si è dimesso Andrea Carandini presidente del Consiglio superiore dei beni culturali. Lo si è appreso dal ministero dei beni culturali. Le dimissioni sono legate agli ulteriori tagli alla cultura e allo spettacolo ed è un gesto clamororo. L'archeologo aveva sostituito Salvatore Settis che si era dimesso dall'incarico contestando le scelte (e le non scelte) del ministro Bondi. Il crollo di Pompei dell'autunno scorso può essere la giusta immagine per quel che diventa il crollo della cultura italiana.
Carandini è un grande studioso, uomo di cultura esperto archeologo, storico, ecc, noto a livello internazionale.
Le dimissioni di Carandini sono - qualunque siano le dichiarazioni che seguiranno - nei fatti una sconfessione dell'operato del titolare del dicastero, oltre che del governo. E l'archeologo è uno dei più stimati e preparati non solo d'Italia.