Il Corriere della Sera: “Monti: non si può dilapidare un tesoro”. “Il premier valuta l’ipotesi di scendere in campo”. “Napolitano e l’attesa per la reazione dei mercati: vedremo cosa faranno”. A centro pagina una intervista con il presidente della Conferenza episcopale italiana: “Bagnasco: irresponsabile chi pensa a se stesso mentre la casa sta bruciando”.
La Repubblica: “Monti: ecco perché mi dimetto”. Il quotidiano offre una conversazione con il premier: “Sono preoccupato ma a questo punto non potevo evitarlo”.
La Stampa: “Monti, la crisi scuote l’Europa. Timori dell’Ue per le riforme in Italia. Il Quirinale: vedremo cosa faranno i mercati. Berlusconi: non temo il Professore. Bersani: non si candidi e rimanga super partes”.
Il Fatto quotidiano: “Monti è partito. ‘Ora ho le mani libere’. Dopo l’annuncio delle dimissioni il premier tecnico si prepara a correre in politica, ma deve decidere con quali truppe. Timori per la riapertura dei mercati. B. chiede aiuto alla Lega. Schulz: Berlusconi è un pericolo per l’Europa”.
L’Unità: “L’Europa: mai più Berlusconi. Monti oggi prova a rassicurare i leader Ue. Napolitano: attendiamo i mercati”.
Il Giornale: “Torna l’asse Berlusconi-Lega. Silvio detta la linea al Pdl: si lavora ad un patto nazionale con il Carroccio. Nessun ostacolo a una lista degli ex An. Monti in trappola: non ha i voti per farsi eleggere e anche il Colle boccia la sua candidatura”.
Politica
Il direttore de La Repubblica Ezio Mauro ha un colloquio con Mario Monti. Dice di aver avuto “molte telefonate” dall’estero, ma precisa di non aver avuto nessun colloquio telefonico con uomini politici prima di discutere sabato sera con Napolitano della scelta delle sue dimissioni: “La mia decisione non ha avuto bisogno di un confronto politico. Non è vero che mi sono consultato con gli onorevoli Bersani e Casini prima di andare al Quirinale. Non ne avevo il tempo, e in qualche modo potrei dire che non ne ho avvertito la necessità. Nel senso che mi era ben chiaro cosa dovevo fare. Ecco perché non ne ho parlato nemmeno con esponenti del governo. Ho voluto confrontarmi soltanto con il capo dello Stato. Poi, a cose fatte, ho chiamato Bersani e Casini. E dopo anche l’onorevole Alfano”. Dice ancora Monti di aver deciso le dimissioni durante il volo da Cannes a Roma, pensando a cosa aveva rappresentato per l’Italia Cannes lo scorso anno, “con quel G8 all’inizio di novembre in cui il nostro governo fu messo alle strette”. Poi parla delle dichiarazioni del segretario Pdl Alfano, in cui si annunciava la presa di distanza del Pdl e la fine dell’esperienza del governo Monti: “L’ho interpretato veramente come un attestato di sfiducia, anche se non espressa in modo formale”. Sui tanti che spingono per una sua candidatura e per la sua benedizione a qualche lista: “Non lo so, non lo so proprio. Se dovessi candidamente dire il mio sentimento oggi, direi che sono molto preoccupato. E non mi riferisco soltanto a quella parte politica da cui è venuto questo epilogo, con le mie dimissioni. No, la mia preoccupazione è più generale”.
Angelino Alfano, in un colloquio con il Corriere della Sera, dice: “Non siamo stati noi a drammatizzare”. Spiega: “Abbiamo usato parole di rispetto nei confronti di Monti e siamo convinti che rimanga una risorsa preziosa per la Repubblica. Questo non può farci velo nel giudizio: in questo anno alcune cose sono state sbagliate e, secondo me, gliele ha fatto sbagliare il Pd”. Alfano indica ad esempio la riforma del mercato del lavoro, la scelta del voto Onu sulla Palestina, “infine i fondamentali dell’economia non vanno certo meglio di un anno fa, quando il governo Berlusconi ha rassegnato le dimissioni”. Perché non avete reso esplicita la sfiducia? “Non lo abbiamo fatto perché non volevamo far precipitare tutto rovinosamente. Alla Camera ho parlato di chiusura ordinata della legislatura, con l’approvazione di quei provvedimenti che servivano all’Italia. Vediamo bene però di cosa stiamo parlando: con le dimissioni siamo passati dall’ipotesi di voto il 10 marzo all’ipotesi di elezioni il 24 febbraio, appena due domeniche prima. Non mi pare che ci sia questo dramma e non siamo stati certo noi a volerlo”.
Su La Stampa: “E Bersani frena Monti: ‘Meglio non si candidi’. Il segretario Pd: serve all’Italia, deve restare super partes”.
Anche su La Repubblica: “Bersani avverte tutti: ‘Alle elezioni resto io il candidato premier’”. Il quotidiano riferisce di una intervista del segretario Pd al Wall Street Journal, in cui dichiara che “se non ci sarà una maggioranza parlamentare, la soluzione non sarà né Monti né Bersani ma nuove elezioni”. Insomma, niente Monti bis.
Il Corriere della Sera riferisce dell’opinione di Stefano Ceccanti, uno dei capofila dei filomontiani del Pd: “Monti sarà a capo di una lista di centro alleata del Pd. In questo modo Bersani andrà a Palazzo Chigi e lui al Quirinale”. Per La Repubblica Montezemolo prepara la discesa in campo e vorrebbe aiutare Monti a tornare a Palazzo Chigi. Da leader del movimento Italia futura, Montezemolo sosterebbe nelle conversazioni private che “c’è una parte dell’establishment italiano, più vicina all’economia reale che alla finanza, che, dopo aver guardato con scetticismo alla operazione di Italia futura &Co ora la considera, insieme all’Udc di Pierferdinando Casini, tra le poche opportunità per arrivare a un Monti bis”.
Per il Corriere “i centristi accelerano” e Casini e Montezemolo sarebbero più vicini alla “lista per l’Italia”. La mossa di Mario Monti, per il quotidiano, sembra aver favorito il processo di aggregazione dell’area moderata.
La Stampa: “Lista ‘Monti per l’Italia’, una task force già al lavoro”. Per il quotidiano, se il premier sciogliesse la riserva, sarebbe possibile un big bang nella politica. “Attratti verso il nuovo Polo: Alemanno, ciellini, pezzi di Pdl e anche di Pd”.
In casa Pdl ci si riferisce a personalità come Giuliano Cazzola, l’ex ministro Frattini e Maurizio Sacconi. Su Il Giornale: “I dubbi dei dissidenti Pdl. I loro destini appesi alle mosse di superMario. Da Frattini e Pisanu ai cattolici Lupi e Formigoni, in molti sono disposti a sostenere un grande centro”. Commenta il quotidiano: “Cocci di partito in qualche caso prontissimi a rientrare nei ranghi berlusconiani, in cambio di candidature certe”.
I quotidiani danno conto della riunione durata tre ore del vertice dei big del Pdl con Berlusconi a Milano. Il summit doveva occuparsi soprattutto della Lega. Il Giornale riassume: “Stringe l’asse con la Lega e prepara l’addio (consensuale) agli ex An”. Le parole di Berlusconi sarebbero state queste: “Che si voti il 10 o il 24 febbraio, quel che è certo è che ci sarà l’election day. E quindi, visti anche i tempi strettissimi, dobbiamo avere garanzie dalla Lega in un quadro nazionale”. Insomma, se la Lega chiede la presidenza della Regione in vista di un eventuale appoggio alle politiche, Berlusconi inverte l’ordine dei fattori: dato che si voterà nello stesso giorno, si impegni a livello nazionale. E la strada per Maroni è in discesa.
La Stampa: “Laboratorio Lombardia, Albertini punta su Monti”. Candidato alla presidenza della Regione, non ha avuto l’appoggio Pdl e, una fonte accreditata dice che se Albertini diventasse “il terminale lombardo di una eventuale lista Monti”, “potrebbe fare da magnete per un pezzo di elettori di centrodestra insofferenti dell’abbraccio leghista e saldamente europeista”. Il Corriere della Sera riprende l’analisi del politologo Roberto D’Alimonte, presentata ieri sul Sole 24 Ore, dove si sottolinea che la coalizione Pd Sel dovrà misurarsi con i 17 premi regionali previsti dalla legge elettorale per il Senato, perché sarà l’esito dello scrutinio di Lombardia, Veneto e Sicilia a fare la differenza al fine di determinare una maggioranza autonoma dell’alleanza Bersani-Vendola anche a Palazzo Madama. Insomma: in Sicilia e in Lombardia il Pd sarà costretto ad allearsi.
Sul Corriere della Sera una intervista al cardinale Angelo Bagnasco: “La preoccupazione più grande è la tenuta del nostro Paese e quindi la coesione sociale”. Fino ad un anno fa il problema era mettere in sicurezza l’Italia e “il governo tecnico ha messo al riparo da capitolazioni umilianti altrimenti rischiose”. “Non si può mandare alla malora i sacrifici di un anno che sono ricaduti spesso sulle fasce più fragili. Ciò che lascia sbigottiti è l’irresponsabilità di quanti pensano a sistemarsi mentre la casa sta bruciando. E si conferma la radice di una crisi che non è solo economica e social, ma culturale e morale. Per troppo tempo i partiti sono stati incapaci di pervenire a decisioni difficili e a parlare il linguaggio della franchezza e non quello della facile demagogia”.
Sul futuro: “Sarebbe un errore non avvalersi di chi ha contribuito in modo rigoroso e competente alla credibilità del nostro Paese in campo europeo ed internazionale”. Il quotidiano chiede quanto possano sentirsi rappresentati i cattolici e se non ci sia un vuoto di rappresentanza dei moderati. “Il fermento nelle file del laicato cattolico per un impegno a favore di una buona politica – risponde Bagnasco – ha registrato in questi ultimi mesi una significativa accelerazione. D’altra parte pensare alla transizione nel nostro Paese a prescindere alle sue radici cristiane appare operazione antistorica, puntualmente contraddetta dall’esperienza di tanti che sperimentano la prossimità dei servizi sociali della Chiesa, sparsi capillarmente ovunque”.
Su La Stampa un articolo del vaticanista Andrea Tornielli spiega che “le simpatie per Monti del Vaticano e dei vertici della Cei non sono certo una novità delle ultime settimane: il Papa e il cardinale Bagnasco stimano il professore che si è conquistato consensi per come ha gestito il non facile dossier riguardante l’Imu per gli immobili ecclesiastici. Quel che è nuovo, nel pamorama di questi giorni – come emerge dagli editoriali pubblicati dal quotidiano cattolico Avvenire e dalle pubbliche dichiarazioni di esponenti dell’associazionismo di matrice cristiana – è l’insofferenza crescente verso l’operazione del Cavaliere”.
La Repubblica torna ad occuparsi delle “Parlamentarie” di casa Grillo: “Nessuna certificazione del voto, nessun controllo di Terzi sullo scrutinio, nessun dato ufficiale sul numero degli elettori, sulla suddivisione delle circoscrizioni o sui voti ricevuti dai diversi candidati”. Fino a giovedì sera, giorno della conclusione del voto, l’unico numero conosciuto era quello dei candidati, 1400. Nulla si sa su quale fosse il corpo elettorale, potrebbero essere 31600 persone. Il quotidiano intervista David Dill, docente di informatica a Stanford: “Io mi preoccupo dei voti espressi via internet se non resta anche una copia, una scheda cartacea”, “l’America ha bocciato quel sistema, anche un ragazzino può violarlo”.
Internazionale
L’articolo 4 del testo costituzionale approvato in Egitto dalla assemblea costituente dominata da Fratelli Musulmani e Salafiti, prevede che l’opinione dei massimi teologi dell’Università di Al Azhar “sarà decisiva in tutte le questioni che riguardano il diritto islamico”. E alla battaglia di Al Azhar è dedicato il reportage di Vanna Vannuccini dal Cairo, su La Repubblica. “Nel cuore dell’islam sunnita conteso da moderati e radicali”. I salafiti e i Fratelli Musulmani mirerebbero a spingere alle dimissioni l’attuale Grande Imam El Tayeb per impadronirsi della prestigiosa università, accampando come pretesto il fatto che fosse stato nominato da Mubarak, come tutti i grandi sceicchi di Al Azhar prima di lui, tradizionalmente nominati a vita dal presidente egiziano. Prima di lasciare il potere, i militari avevano decretato che in futuro la nomina sarebbe stata riservata ad una commissione di 40 teologi interni alla università. Il partito salafita Al Nour chiede che il prossimo grande imam venga eletto direttamente dagli studenti e dal corpo insegnante, che ormai proviene sempre più spesso dall’Arabia Saudita, mentre l’imam El Tayeb ha una laurea in filosofia islamica presa alla Sorbona.
Il Corriere della Sera si occupa della tensione ancora alta in Egitto: “Alla piazza non basta il passo indietro di Morsi”. Il Presidente aveva accettato sabato sera di ritirare il decreto con cui si era dato poteri straordinari, ma non aveva concesso nulla sul referendum costituzionale, che ha confermato per il 15 dicembre. Fallisce quindi il tentativo, patrocinato dai militari, di ricucire la profonda spaccatur apolitica che destabilizza l’Egitto. Il fronte di salvezza nazionale, in cui si ritrovano tutte le componenti dell’opposizione, ha dichiarato di rifiutare il referendum “perché Morsi non aveva alcun diritto di indirlo”. Ne parla anche Il Giornale: “Per comprendere il nuovo ‘no’ dell’opposizione a Morsi, basta guardare al referendum sulla Costituzione previsto il 15 dicembre. Senza il decreto che lo svincolava dal controllo della magistratura, Morsi non avrebbe mai potuto convocare un referendum costituzionale a così breve termine. Dunque, annullare l’editto del 22 novembre (quello sull’ampliamento dei suoi poteri, ndr) senza cancellarne il principale effetto, equivale a un raggiro”.
Su L’Unità, intervista al portavoce del movimento giovanile 6 aprile, Mahmud Afifi, tra i protagonisti delle proteste di piazza Tahrir contro Mubarak. Sulla decisione del presidente Morsi di ritirare il decreto sui superpoteri, Afifi dice: “Oltre che una provocazione, si tratta di un insulto alla nostra intelligenza. Il ‘nuovo’ decreto è una fotocopia del precedente. Per come è stato congegnato, è una truffa: evoca quello precedente e ne salva tutti gli effetti, come la nomina del nuovo Procuratore generale. Non parla esplicitamente di inappellabilità delle decisioni del Presidente, ma stabilisce che nessuna dichiarazione costituzionale, inclusa quest’ultima, possa essere ricusata davanti ai giudici. E poi mantiene il referendum costituzionale. E questa sarebbe una base per il dialogo?”. Per Afifi la carta costituzionale “instaura la ‘dittatura della sharia’”, “accettarla significherebbe ipotecare il futuro dell’Egitto. Noi non ci arrendiamo a uno Stato teocratico”.
di Ada Pagliarulo e Paolo Martini