Le aperture
Di spalla il quotidiano offre un intervento del Presidente Napolitano così titolato: “‘Lessi in Aula la tragica lettera che mai potrò dimenticare”. Si parla del suicidio del parlamentare Moroni, nel 1992, durante le inchieste su Tantentopoli.
L’editoriale è firmato da Angelo Panebianco: “La matita rossa di Juncker”.
A centro pagina le elezioni in Giappone: “Il Giappone incorona Abe. Quattro anni di riforme. Ma è record di astensioni”. “Confermato il premier, sì alle ricette per il rilancio”.
In prima anche un richiamo per la Turchia: “La vendetta di Erdogan sull’opposizione. Gli arresti e lo stop della Ue”.
Una grande foto racconta la notizia di cronaca del giorno: “Gran Sasso. Muore in vetta con il suo amico. La lastra di ghiaccio tradisce la guida”.
Il Giornale: “I giochi sporchi sul Quirinale. Il dopo Napolitano. Una parte del Pd vuole sottrarsi all’accordo con Berlusconi, che replica: i patti sono questi”.
In evidenza la sezione “controcorrente” del quotidiano: “La firma che inguaia De Benedetti. Morti per amianto, per la Procura l’ingegnere era al corrente dei rischi per i lavoratori”.
In prima anche un articolo di Alessandro Sallusti su Cuffaro, detenuto a scontare una condanna per favoreggiamento aggravato verso la mafia. Gli è stato negato un permesso: “La crudeltà dei giudici che vietano a Cuffaro una carezza alla madre”.
La Repubblica: “Pd, la sfida di Renzi: ‘Non accetto diktat, con l’Ulivo persi 20 anni’”, “Tregua tra premier e minoranza. Fassina lo attacca: vuoi le elezioni. Berlusconi: ‘Io decisivo per il Quirinale’, ma il segretario lo gela”.
A centro pagina, la legge di Stabilità: “Manovra, fondi a pioggia, esce il Belice ma c’è Catania”.
La foto in apertura ritrae le giornaliste del quotidiano turco Zaman in rivolta contro il premier: “Erdogan arresta i giornalisti, l’ultima sfida del Sultano”. Di Adriano Sofri.
Il reportage richiamato in prima è firmato da Bernardo Valli: “Sul confine della Polonia con la paura dell’orso russo”, “L’eco del conflitto in Ucraina e a Kaliningrad c’è Putin: con le sue armi nucleari”.
A fondo pagina, un intervento di Thomas L. Friedman sul vertice di Lima sul clima: “Accordo sul clima: ‘Ecco perché il 2014 può essere l’anno della svolta verde’”.
La Stampa: “La sfida di Renzi: basta diktat”, “Alla minoranza Dem: siate leali. Fassina: se vuoi andare al voto dillo”, “Il premier all’assemblea del partito: l’Ulivo? Noi realizziamo quelle idee, ma il Paese intanto ha perso vent’anni”.
E sul Nazareno: “’Nel patto anche il Presidente’”, “Berlusconi rilancia ma il Pd nega: nessun accordo sul Quirinale”.
Poi “aziende a burocrazia”: “Per ogni norma che semplifica, quattro complicano il lavoro”, “Chi ha un’impresa spreca 269 ore l’anno per le tasse. Fisco ‘nemico’ con una norma in più a settimana. Domani il saldo della seconda rata per Imu e Tasi”.
A centro pagina, foto di Babbi Natale per la festa di solidarietà: “Torino, la carica dei 15 mila Babbi Natale”.
Di spalla a destra: “Se la Turchia spegne le voci libere”, “Arrestati 27 giornalisti”, di Gianni Riotta.
E un intervento di Vladimiro Zagrebelsky: “Fine vita, quello che insegna Parigi”.
Il Fatto: “Cloaca massima”, “Caccia al tesoro della Magliana. La banda non era finita con De Pedis. Ma si è buttata in affari tra imprese locali e cooperative dal volto umano. Sulle tracce dei milioni di Carminati e dei suoi amici, tra politica corrotta, ‘ndrangheta e Cosa Nostra. E tante morti misteriose”.
Sull’Assemblea nazionale del Pd: “Pesci in faccia Fassina-Renzi. E B. minaccia sul Quirinale”, “Il premier nel guado”, “Il ribelle: ‘Smettila con i gufi e dì se vuoi le elezioni’. La risposta: ‘Basta diktat’”.
A fondo pagina, foto di Fantozzi: “40 anni dopo”: “’Io, Fantozzi lasciato a spasso dal Jobs Act’”. Alle pagine interne si spiega che era l’eroe del posto fisso, ma oggi dovrebbe affrontare un mondo diverso: addio articolo 18, sarebbe licenziato in tronco.
Su La Repubblica, a pagina 2, si riassume il confronto ieri all’Assemblea del Pd: “Pd, l’avviso di Renzi: ‘Nessuna rottura ma adesso basta diktat e nostalgie sull’Ulivo’”, “’Giudici, meno interviste. Jobs Act fascista? Assurdo’. Cuperlo esclude scissioni. Fassina: se vuoi votare dillo”. Scrive Giovanna Casadio: “Non si è conclusa con una conta, l’Assemblea Pd nata sotto i peggior auspici, bensì con gli auguri di Natale. Renz non ha mancato l’affondo, ma solo per dire che non accetta i ‘diktat’ della minoranza. Più duro è stato sull’Ulivo e su quella nostalgia canaglia che stravolge il ricordo dei fallimenti del centrosinistra. ‘Contrasto il racconto mitologico e nostalgico dell’Ulivo quando quella esperienza è stata mandata a casa dai nostri errori e dalle nostre divisioni’, ha detto all’inizio dell’intervento”. Mancava la “vecchia guardia”, perché non c’erano né Bindi, né Bersani, né D’Alema. Insomma, scrive Casadio, “niente santini” come l’Ulivo; e niente dimenticanze gravi, come ad esempio lo sgambetto a Prodi nel 1998. Quindi ora si va avanti a passo di corsa e senza veti delle minoranze: “chiedo lealtà”, ha detto il premier-segretario.
Il “retroscena” di Goffredo de Marchis: “Matteo guarda al Colle: ‘Così posso fare a meno dei voti di Fi’”. Il tema viene ripreso anche da Stefano Folli, nella sua rubrica ‘Il Punto’: “Renzi in cerca di lealtà per frenare il Cavaliere”. Si legge che il premier non ha gradito il tentativo di Berlusconi di reinserirsi nella partita del Colle appellandosi al celebre e fumoso Patto del Nazareno: “in questa fase il premier-segretario è interessato più che altro alla coesione del suo partito e della sua maggioranza. Se riesce a garantirsi l’una e l’altra, i voti di Forza Italia per eleggere il successore di Napolitano diventano aggiuntivi e non più determinanti”. La linea di Renzi, secondo Folli, non è cambiata: propone al partito di seguirlo, chiedendo un atto di fiducia assoluta, Chi accetta, ottiene un certo rispetto in cambio della promessa di lealtà. Gli altri restano ai margini, da Fassina a Civati a Rosy Bindi. Quanto alla stagione dell’Ulivo citata da Renzi: “non c’è chi non veda che anche Romano Prodi, sebbene non citato, è stato messo sotto tiro. I limiti del vecchio Ulivo, quei peccati politici che il ‘renzismo’ ritiene di aver corretto, sono da ricondurre in buona misura al padre fondatore. E non è un caso che Prodi sia un candidato autorevole alla presidenza della Repubblica. Un candidato non certo vicino al premier a a lui gradito”.
Su La Stampa un retroscena di Fabio Martini: “Invito inatteso del segretario: ‘Caro Prodi’, vediamoci’”. Dove si legge che i rapporti tra Renzi e Prodi sono “all’osso”, non si parlano direttamente da mesi. Ma c’è la questione Quirinale: Renzi sa che Berlusconi ha opposto un veto personale su Prodi, ma sa altrettanto bene che la candidatura del Professore potrebbe essere calata dal ‘fronte del no’ (Sel, minoranza Pd, Cinque Stelle) proprio per mettere in difficoltà il capo del governo. E comunque, confida un renziano doc, “Prodi è meglio non averlo contro”. Ieri il segretario Pd ha implicitamente criticato la stagione prodiana e Sandra Zampa, che di Prodi è stata la portavoce ha chiesto quale fosse l’interpretazione autentica di quelle parole. Renz: “Non si è capito che ce l’avevo soprattutto con Berlusconi?”. Zampa: “No”. E nella replica il segretario ha preso di mira le divisioni che, protagonista D’Alema, portarono alla caduta del prima governo Prodi. E allora cosa si diranno Renzi e Prodi? Qualche tempo fa si era parlato di una investitura di Prodi come possibile mediatore Onu sulla Libia: ad indicarlo erano stati alcuni leader africani, ma non risulta che i governo italiano si sia speso per quell’incarico. Da mesi si parla di una sua candidatura, però, alla guida delle Nazioni Unite. Ma non è detto che quella poltrona fra due anni sia nella disponibilità dell’Italia.
Il quotidiano intervista Arturo Parisi: “L’Ulivo era un sogno, ma il tempo l’ha preso l’Italia”, “Senza quell’esperienza Renzi non sarebbe premier”.
Il Fatto, a pagina 2, ha nel titolo le parole pronunciate da Stefano Fassina: “’Non permetterti più’. Ma Renzi tira dritto”. E lo stesso Fassina, intervistato nella pagina a fianco, alla domanda su una sua possibile scissione, dice: “Non è nei mier progetti. Il mio impegno è nel Pd”. A Civati che pensa di andarsene, cosa dice? “Che il Pd è il nostro partito”. Berlusconi ha svelato che nel Patto del Nazareno c’è anche il presidente delle Repubblica, cosa ne pensa? Fassina: “Non mi stupisce. Ma il nuovo capo dello Stato dev’essere eletto con una larga convergenza, insieme anche a Cinque Stelle, Lega e Sel”.
Il Corriere sintetizza l’Assemblea Nazionale del Pd di ieri con questo titolo: “Battaglia Pd senza lo strappo”. “Assemblea tesa ma non si va al voto. Le assenze di Bersani e D’Alema. Renzi: no ai diktat. L’Ulivo? Venti anni persi. Fassina: se vuoi le urne dillo”. Gianni Cuperlo ha detto “tanto tuonò che non piovve” e questa frase “fotografa”, a giudizio del quotidiano milanese, la “mancata resa dei conti”. Si dà conto dell’intervento di Renzi, dell’attacco di Fassina che gli ha chiesto di non continuare a disegnare l’opposizione interna in modo “caricaturale”, e della replica del segretario: “‘Stefano ha un po’ urlato, con la passione che gli riconosciamo. Io non credo che sia una caricatura quando mi viene detto che sono la Thatcher de noantri, che il jobs act è una legge fascista, che siamo come la trojka”.
Il Giornale: “Renzi non vuole martiri. Minoranza graziata”. Dove si legge che il segretario ha attacco “la fronda”, “l’Ulivo” e “la Cgil” ma alla fine ha rinunciato a far votare un documento “su cui avrebbe avuto la maggioranza schiacciante”. Insomma: “soave nei toni, duro nei contenuti”. Non c’era bisogno di votare perché – si legge – la maggioranza sa che la minoranza è divisa: “‘Sabato notte, nel voto in Commissione sulla riforma del Senato, gli otto deputati della minoranza sono riusciti a dividersi in tre diverse posizioni, e la riforma è stata approvata’, constata David Ermini. Inutile quindi infierire”.
Un articolo del Messaggero sottolinea le assenze: “D’Alema non va, Bersani si sfila. Così la fronda perde i suoi assi”. D’Alema, scrive il quotidiano, è rimasto “nei suoi vigneti” mentre Bersani “ha mal di schiena”, o forse “come azzarda maliziosamente qualcuno, non è venuto per evitare che si palesasse il patto di non belligeranza che avrebbe stretto” con il segretario, comprensivo “di qualche vaga (solo per farlo stare buono) promessa su una improbabile candidatura al Quirinale”.
Sul Corriere un articolo fa il punto sul percorso delle leggi di riforma elettorale ed istituzionale. Entro il 31 gennaio si punta ad approvare la riforma costituzionale in prima lettura e per approvare la legge elettorale al Senato.
Il Corriere: “Il Nazareno vale per il Quirinale’. Berlusconi agita la maggioranza”. Il leader di Forza Italia ieri ha parlato in collegamento telefonico con un evento del suo partito ad Imola, ed ha spiegato che il patto del Nazareno, anche se “‘ci ha impedito una opposizione vera’ ed ha ‘creato delle difficoltà al nostro interno'”, va mantenuto, sia perché le riforme proposte dal governo sono molto simili a quelle che proponevano i governi Berlusconi, sia perché “la conseguenza ‘logica’ del Patto è che ‘non potrà essere eletto un Capo dello Stato che a noi non sembri adeguato all’alta carica istituzionale'”. Si tratta insomma di un “vincolo che- scritto o non scritto che sia – Renzi dovrà rispettare”. La “rivelazione” del Cavaliere mette in difficoltà il Pd, tanto che ieri sia Guerini che Serracchiani hanno replicato che no, l’elezione del Capo dello Stato non c’entra con le riforme.
Sul Messaggero si cita il passaggio dell’intervento di Renzi in assemblea Pd dedicato all’elezione del Presidente della Repubblica. “Non ho alcun dubbio che, quando arriverà il momento, il Pd andrà a parlare con le altre forze politiche e saprà indicare un garante delle istituzioni”. La scelta sarebbe quella di un “metodo Ciampi”, cioé di indicare agli altri partiti un nome “non troppo targato e decisamente autorevole e inattacabile”, “con un’elevata caratura istituzionale e internazionale”, come Ciampi appunto, con l’obiettivo di avere il Presidente alla prima votazione.
Sul Corriere Angelo Panebianco scrive che Jean-Claude Juncker “sembra essere” una di quelle “figure incolori, inadeguate, molto al di sotto dell’altezza e dello spessore, politico, morale, culturale, che sarebbero stati necessari per affrontare la tempesta in arrivo” che in passato hanno occupato la scena. Un Presidente di Commissione che “agisce come se vivessimo in tempi normali. Solo che i nostri tempi non sono normali”, tra la Gran Bretagna che “ha già un piede fuori dalla casa europea”, la situazione in Francia con il FN di Marine Le Pen. E il rischio è che “nel breve termine” pagherebbe le conseguenze di una Unione in crisi soprattutto l’Italia, “proprio perché l’Italia non è un vero Stato-nazione che, per decenni, ha investito simbolicamente, molto più degli altri Stati, nell’integrazione europea. Se l’integrazione verrà meno, l’Italia si troverà immediatamente ad affrontare i propri fantasmi, a fare i conti con la propria fragilità istituzionale”. E per questo non occorre sottovalutare il ruolo della Russia, anche per i suoi sostegni ai movimenti antieuropei.
Sul Messaggero una intervista a Sandro Gozi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche europee. “Grazie a noi cambiato il metodo. Archiviata l’austerità di Barroso”. Dove si escludono nuove richieste dall’Europa, si nega che sia in arrivo la Troika a commissariare il nostro Paese e “chi lo dice è sciocco e in malafede”, l’importante è andare avanti con le riforme strutturali.
Il Messaggero informa che oggi il premier israeliano Netanyahu incontrerà a Roma il presidente del Consiglio italiano Renzi e il segretario di Stato Usa Kerry. “Israele non accetterà di ritirarsi entro i confini del 1967”, scrive il quotidiano.
Il Corriere: “L’israeliano Netanyhau gela americani e russi. ‘No ai confini del 1967′”. Il Corriere ricorda che all’origine dell’attivismo americano c’è l’agenda alle Nazioni Unite,dove la Giordania ha presentato una risoluzione che chiede ad Israele di ritirarsi ai confini precedenti alla guerra del 1967, e dove anche i palestinesi presenteranno mercoledì una bozza di risoluzione in cui pure si chiede la fine della occupazione e il ritiro dai territori occupati. Un’altra bozza, meno vincolante ma con lo stesso obiettivo del ritiro, è stata presentata da Gran Bretagna, Francia e Germania. A queste proposte si oppone Netanyahu, anche se questa volta Israele forse non potrà contare sul veto di Washington.
Grande attenzione su La Repubblica a quella che viene definita da Marco Ansaldo “la vendetta” del premier turco Erdogan contro la stampa libera: l’arresto di 32 giornalisti. L’accusa è quella di aver sostenuto gli avversari del presidente. E’ accaduto ieri all’alba, contemporaneamente in 12 città: Scrive Ansaldo che le accuse sono varie e piuttosto generiche, spaziando dal terrorismo a progetti di golpe. Il Diprtimento di Stato ha reagito sottolineando che “la libertà di stampa, processi giusti e un sistema giudiziario indipendente sono elementi chiave di ogni democrazia”. Il quotidiano intervista lo scrittore Orhan Pamuk. E nell’articolo si ricorda che qualche giorno fa il quotidiano pro governativo Akit scriveva che “c’è una lobby internazionale degli scrittori”. Lo faceva indicando due reprobi tra gli autori scelti dalle “potenze occidentali” contro le autorità di Ankara: Orhan Pamuk e Elif Shafak. La Repubblica interpella la scrittrice, che contesta l’accusa di essere, insieme a Pamuk, agli ordini delle “potenze imperiali”: “se critichi il governo in turco -spiega- non si arrabbiano molto. Ma se lo fai su un giornale straniero, specialmente su un quotidiano molto influente, allora si arrabbiano”. Per loro è “un affare di famiglia”. Quanto a Pamuk, in un’intervista al quotidiano Hurryet ha detto: “vedo che tutti hanno paura”, “la libertà di espressione è scesa ad un livello molto basso”, “molti amici vengono a dirmi che questo o quel giornalista ha perso il lavoro. Ormai gli stessi giornalisti più vicini al potere vengono cacciati”. Se ne occupa anche con una lunga analisi Adriano Sofri: “la retata di giornalisti ha un fine interno, far fuori la principale opposizione legata a Fetullah Gulen, e uno esterno, ostentare la più soddisfatta strafottenza nei confronti dell’Unione europea”. La Turchia, però ha “una società vivace, colta e coraggiosa, soprattutto nelle grandi città. Di cui un’indipendenza dei mezzi di comunicazione è la condizione decisiva. Quello che è successo ieri, quando un primo tentativo di arrestare i caporedattore del quotidiano Zaman è stato sventato dalla gente radunatasi a sua difesa, ma è riuscito più tardi, descrive esemplarmente questa duplicità: la società libera e la forza soverchiante dello Stato, come a Gezy park”.
Su La Stampa ne scrive Marta Ottaviani: “Il pugno di Erdogan sui media. Retata di reporter allo ‘Zaman’”, “Accuse di terrorismo, rischiano l’ergastolo. Gli Usa: violazione grave”. Si racconta come la sede il quotidiano Zaman sia fra i più letti in Turchia, con quasi un milione di copie tirate: fino a tre anni fa, l’editore, il filosofo islamico Gulen era grande amico di Erdogan, tanto che aveva finanziato le campagne elettorali dell’allora primo ministro. Poi i rapporti si sono incrinati: da quando Erdogan ha pensato di ampliare sempre più i suoi poteri. Poi, nel dicembre 2013, scoppia la “Rtangentopoli turca”: decine di persone vicine a Erdogan vengono arrestate. L’inchiesta è stata insabbiata, ma il primo ministro se l’è presa con Gulen, accusato di controllare buona parte della polizia e della magistratura. A fondo pagina, è sempre Marta Ottaviani a raccontare come un misterioso account su Twitter (Fuat il suo nome) abbia agito come una “talpa” in casa del “Sultano”: ha avvertito del giro di vite in arrivo e dell’arresto imminente di 150 giornalisti.
Sul Corriere si legge degli arresti di ieri in Turchia: “Il presidente Erdogan ha aspettato per un anno per rendere pan per focaccia ad uno dei suoi più importanti oppositori , il predicatore dal 1999 in esilio in Usa, Fetullah Gülen, a capo di una corrente della destra islamica turca che si oppone all’Akp e che proprio un anno fa era stato considerato dall’allora premier l’ideatore delle inchieste sulla famosa tangentopoli turca. La retata è scatta all’alba. Un’operazione di polizia su vasta scala, in 13 città della Turchia che si è conclusa con l’arresto di due capi di polizia e di almeno 24 giornalisti tra cui Ekrem Dumanli il direttore del quotidiano Zaman, uno dei più importanti nel Paese, di proprietà di Gülen e il direttore dell’emittente Samanyolu, Hidayet Karaca. Ma sulla lista ci sarebbero altre decine di persone”. L’accusa: “aver ‘formato un gruppo terrorista’, come ha spiegato il procuratore capo della città del Bosforo, Hadi Salihoglu. Tra gli arrestati c’è anche Tufan Urguder, ex capo dell’antiterrorismo di Istanbul”.
Ovvia la condanna della Ue, che ha definito gli arresti “incompatibili con la libertà di stampa, che è il fondamento della democrazia” e «contro i valori e gli standard dell’Europa cui la Turchia aspira a far parte”, e del Dipartimento di Stato Usa: “Come amici e alleati della Turchia, chiediamo con urgenza alle autorità turche di assicurare che le loro azioni non violino i valori chiave e le fondamenta democratiche stesse della Turchia”.
Sul Corriere un articolo di Antonio Ferrari, dove si legge che Erdogan con questa ulteriore scelta dimostra di “non voler diventare padre della patria” ma rappresentante di “una sola parte” del Paese, quella che “lo riconosce come signore e padrone”.
Il Sole 24 Ore racconta della vittoria del primo ministro giapponese Shinzo Abe: “dalle elezioni anticipate da lui convocate come un referendum sulle sue politiche economiche è scaturita una maggioranza di oltre due terzi per la coalizione che lo sostiene: 326 seggi su 475 alla Camera Bassa – il ramo più importante della Dieta – con un lieve aumento percentuale rispetto a prima”. “L’opposizione, debole e divisa, ha fallito nel tentativo di sottolineare che l’Abenomics tende ad avvantaggiare la Borsa più che l’economia reale e a ridurre il potere di acquisto delle famiglie”. Nell’opposizione l’unico che ha ottenuto risultati è il partito comunista, “che è riuscito a intercettare il voto motivato di protesta più che raddoppiando i suoi seggi a 21”.
L’astensionismo – al massimo storico del 47 per cento – ha giocato in favore di Abe.
Il Corriere intervista il sociologo dell’Università Waseda di Tokio Junji Tsuchiya. Sul voto di ieri, astensione compresa, dice che avvicina il Giappone all’Italia e all’Europa: “I politici, un tempo punti di riferimento indiscutibili, sono sempre più ignorati se non addirittura disprezzati dall’opinione pubblica” e “l’idea è che la società possa farcela da sola”. E i giovani “non vanno a votare perché credono nella democrazia ‘diretta’ e disprezzano la rappresentatività ‘indiretta’”.
Giorgio Napolitano oggi scrive al Corriere per rispondere ad Ernesto Galli della Loggia, che ieri, in un editoriale sull’antipolitica, aveva rievocato il suicidio del parlamentare socialista Sergio Moroni e la lettera con cui spiegava le ragioni del suo suicidio, indirizzata a Giorgio Napolitano. Napolitano spiega che scelse di rendere pubblica quella lettera, che denunciva “un clima da pogrom nei confronti della classe politica”, e che quella vicenda “non si è mai cancellata dalla mia memoria”, tanto che ripubblicò la lettera in due successivi suoi libri. Insomma, dice Napolitano, non lasciai “cadere nel vuoto” quel richiamo, come scriveva ieri Galli della Loggia.