Sono tornata in Marocco per la seconda volta nell’arco di due mesi. Dopo esserci mancata per quasi 30 anni. Il mio timore era quello di ritrovare un paese cambiato, stravolto, irriconoscibile. La sorpresa è stata invece scoprire che il Paese, pur progredendo, non è cambiato affatto, se non in meglio.
Per mia deformazione professionale, ma chiamiamola anche ossessione personale, i Paesi, le città, i luoghi che visito amo conoscerli con i sensi, non solo con gli occhi ma soprattutto con il naso, la bocca, l’udito. Mi piace insomma ascoltare, odorare, mangiare il mondo. E dunque la prima cosa che faccio, sempre, è cercare i mercati. Qualsiasi mercato che venda cibo. E in Marocco questo è facilissimo. Il Paese infatti ha più mercati, souk, bancarelle, che abitanti. E sono mercati meravigliosi, dove si mescolano colori, profumi, aromi, grida, perchè le città bisogna imparare a conoscerle proprio da effluvi e puzze. Le città del Marocco sanno di pesce, di pane, di pasta sfoglia, di spezie e menta, di urina di cani. Appena arrivo afferro la macchina fotografica e mi precipito nelle strade. Ritrovo la ricchezza di pesci, frutta, erbe. La folla che preme ai fianchi, le urla rauche dei mendicanti, la luce che taglia muri e piazze. Gli odori e i colori delle spezie, i canti dei muezzin, i semi, la frutta, pentole e tele grezze, morbidi formaggi di capra avvolti in foglie di palma, insaporiti con spezie e menta, avocado e cetrioli, e poi cesti e cesti di fave, mentre il marito si occupa della vendita, le donne, sedute su scomode sedie di paglia, sgusciano in silenzio, quasi stessero sgranando un rosario. Io mi comprerei tutto.
Quello che mi piace di questo paese è il cibo impudico. Il modo sfacciato e senza abbellimenti in cui te lo offrono, quasi un’aggressione. Buttato in terra, tra la polvere, appeso in aria, mai truccato o pettinato. Non c’è nulla di curato, di “carino”. C’è invece sempre questo abbraccio ostentato di vita e morte. Soprattutto i banchi della carne rivelano tutto, senza alcun pudore.
Qui gli odori diventano violenti, acuti, penetranti. Palle di bue, sederi di capre e di vitelli, fegati, intestini, trippe, teste di dromedari. E altro non bene identificato. Non c’è nulla di innocente, non c’è l’ipocrisia occidentale grazie alla quale si fa finta di non sapere da dove viene il nostro arrosto, eppure io, bambina degli anni ’50, ben ricordo i quarti di bue sventrati, i conigli e i polli non scuoiati, le teste di agnello che pendevano dai ganci dei macellai. La carne è così. Non è Bambi, o Roger Rabbit, o la Mucca Carolina. E’ questa roba di nervi, sangue, tendini induriti, muscoli. Certo, si può scegliere di non mangiarla ma non di far finta che sia altro da ciò che è. Non scambiarla per cartone animato, per quegli animaletti con scarpine e cappottini che impazzano su FB. Io, che forse sono un po’ sadica, non mi stanco di guardarli questi enormi pezzi di carne. Per non dimenticare di cosa sia fatto il mondo.
E ovunque questa fisica esultanza tra animali vivi e morti, c’è un gatto che gioca nella cesta delle cipolle che da noi andrebbe a finire sui giornali, gente che cammina con tacchini sotto braccio, gabbie piene di volatili che finiranno comunque cotti, chi arrosto o in tagine, come polli e le galline e chi, come i piccioni, nella pastille, una sorta di sfogliata di carne, mandorle, frutta secca, spezie e zucchero che se non la conoscete dovreste provarla.
Io ho imparato a farla da una cuoca marocchina, è un piatto unico, uno scrigno prezioso farcito di pollo o piccione, cipolle, mandorle tritate, zucca, miele, tante spezie tra cui: ginepro, cannella, zafferano, cumino, noce moscata, peperoncino. Le mandorle sono prima fritte e poi tritate molto fini. La zucca è prima cotta a vapore e poi passata in padella sempre con molte spezie e miele, sale, pepe, finchè l’acqua si sia tutta asciugata. Quando tutto è pronto la pastilla viene composta. Per prima cosa mi piace moltissimo il modo fisico che le marocchine (la cucina qui è ancora quasi esclusivamente al femminile) hanno di cucinare. Il cibo lo toccano, lo odorano, lo carezzando, lo massaggiano, tutto con le mani. La cuoca marocchina ha impastato le mandorle tritate con il miele e la cannella, poi ha fatto fondere il burro aggiungendo il grasso filtrato dal colino in cui aveva messo la salsa del pollo. Poi sempre con le mani ha mescolato a lungo pollo e salsa. E infine ha iniziato a stendere i fogli di pasta fillo. E’ la parte più bella, i fogli si aprono a formare una specie di fiore, sono riempiti con il pollo, sopra la zucca e a finire le mandorle. Tutto viene poi rimboccato e coperto come un bambino, sempre ungendo i fogli con le mani che si bagnano in continuazione nel burro e nel grasso del pollo. Il risultato finale è bellissimo. E mangiandolo scoprirete un nuovo mondo, profumato, speziato, croccante, un perfetto incontro tra dolce e salato. Scoprirete il Marocco.