Appuntamento a Milano con il Presepe di Federico Barocci

L’Avvento è il periodo migliore per ammirare una suggestiva tela di Federico Barocci intitolata “Presepe” e conservata nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Tuttavia, poiché un’opera d’arte è sempre il frutto dell’ingegno e della sensibilità del suo autore, eccone qualche utile informazione biografica

Federico Barocci nacque ad Urbino nel 1528 ed era nipote di Ambrogio Barocci, scultore milanese trasferitosi in quella cittadina per lavorare all’abbellimento del Palazzo Ducale, a quei tempi in costruzione. Il padre dell’artista, invece, era un abile orologiaio e incisore di gemme e indirizzò il piccolo Federico al disegno, affidandolo in seguito agli insegnamenti e alla guida dello scultore Battista Veneziano, il quale lo perfezionò in quell’arte figurativa, facendogli eseguire continui esercizi. Federico si applicava con tanta passione e piacere da trascorrerci molte notti insonni. Si narra che la madre lo trovasse spesso al mattino ancora sveglio e al lavoro, a lume di candela in mezzo ai suoi fogli. Successivamente il giovane fu mandato a Pesaro, in casa dello zio Bartolomeo Genga, pittore e architetto, che lo preparò nella geometria, nell’architettura e nella prospettiva. All’età di 20 anni Federico si trasferì a Roma dove proseguì i suoi studi, distinguendosi dai numerosi compagni per una maggiore predisposizione e capacità. Perfino Michelangelo Buonarroti, osservando un giorno i disegni del giovane e vedendo l’opera del suo Mosè imitata con assoluta accuratezza, lo ammirò e lo lodò, esortandolo a proseguire nell’apprendimento . Dopo quell’episodio, Federico rientrò nella sua città, dove un pittore urbinate tornato da Parma gli presentò alcuni cartoni dipinti a pastello da Antonio Allegri, detto il Correggio. Federico ne rimase affascinato perché quell’arte ben si conformava al suo gusto e al suo genio e sulla scia del grande maestro si perfezionò nel dipingere a pastelli dal naturale, imitando il Correggio nelle “dolci arie delle teste, nelle sfumature e nella soavità del colore”. (Giovan Pietro Bellori, Le Vite, Roma, 1672).

Il giovane Barocci ritornò a Roma nel 1560 e durante una visita al pittore Federico Zuccari fu invitato da questi a dipingere con i pennelli, cosa che dapprima ricusò modestamente ma poi, per l’insistenza e i consigli dell’amico, si rassicurò e procedette nel migliorarsi in quella tecnica. Purtroppo durante i lavori commissionati da Papa Pio IV per il Palazzetto del Bosco di Belvedere, che Barocci stava svolgendo insieme a Federico Zuccari e altri, dovette interrompersi e ritirarsi a causa di una grave malattia che nessun medico né alcun rimedio riuscirono più a curare e che l’oppresse per i successivi anni della vita, limitandogli per sempre il tempo da dedicare alla sua attività. Secondo Pietro Bellori gli fu somministrato veleno nel cibo da alcuni suoi giovani colleghi, per invidia. Quell’episodio costrinse Federico a tornare in patria dove cercò di ristabilirsi, ma passarono quattro lunghi anni tormentati prima che potesse riprendere in mano i pennelli.

Il biografo di Federico racconta che l’artista era lentissimo nel completare i lavori e, a causa della sua modestia, restìo ad assumerne altri prima di veder conclusi quelli già iniziati. Pertanto, sia per il suo carattere che per la sua salute era quasi impossibile sollecitargli la conclusione di una tela o l’assunzione di una commissione, la qual cosa si giustificava con le sue cattive condizioni di salute che gli consentivano di lavorare solo due ore al giorno. Tuttavia non si può escludere che la lentezza nel consegnare le opere dipendesse anche dal meticoloso metodo di lavoro di Federico, che per la realizzazione di un’opera si serviva di attenti studi e decine di accurati disegni preparatori che gli rubavano il poco tempo che poteva dedicare al lavoro, afflitto com’era dalla malattia. Anche Francesco Maria II Della Rovere, Duca di Urbino e amico ed estimatore del pittore, nella sua numerosa corrispondenza con le varie personalità dell’epoca che gli chiedevano un aiuto per ottenere sue opere o sollecitarne la conclusione, ribadiva l’impossibilità di influire sull’agire dell’artista poiché “si male in arnese di sanità…aggravandosi ogni giorno di più d’infermità et melanconia” (lettera del Duca a B. Maschi, Casteldurante, 20-IX-1588).

Dotato di un acuto spirito di osservazione, Federico si avvaleva di tutto ciò che riusciva a captare dalla realtà: trovandosi fuori casa guardava con molta attenzione ogni cosa, cercando uno spunto dal quale attingere per creare le sue opere. Se la sua attenzione era attratta da una bella figura, un bel profilo di naso, una bella bocca, uno sguardo espressivo o da un bel taglio di occhi, li disegnava in chiaro scuro con una matita, o con pastelli sfumandone il colore, e all’occorrenza, dopo ripetuti passaggi e correzioni, li utilizzava per comporre le bellissime pose delle teste o i vari personaggi raffigurati sulla tela. Il pittore applicava la stessa accurata diligenza anche nella scelta dei colori, al fine di ottenere tra essi la “maggiore concordia e unione, senza offendersi l’un l’altro”. Barocci definiva la pittura “musica”, perché, così come la melodia delle voci diletta l’udito, allo stesso modo la vista si ricrea per la consonanza dei colori accompagnata dall’armonia dei lineamenti. Emblematico in tal senso è l’episodio che vide il Duca Guidobaldo chiedere un giorno a Federico cosa stesse facendo e al quale l’artista rispose “sto accordando questa musica”, indicando il quadro che dipingeva. Federico Barocci morì a Urbino il 30 settembre 1612 e venne sepolto nella Chiesa di San Francesco.

Il presepe ambientato in una stalla, e non in una grotta, come da tradizione

IL Presepe fu dipinto da Federico Barocci nel 1597 su commissione del Duca di Urbino Francesco Maria II Della Rovere, che successivamente lo donò a Margherita d’Austria regina di Spagna, per la sua cappella personale. Attualmente l’opera è conservata nel museo del Prado di Madrid. Tuttavia una fedele replica di essa fu realizzata dall’artista per il cardinale Federico Borromeo che, trovandosi ad Urbino nel Dicembre 1598 e avendo ammirato il dipinto originale, ne commissionò una copia.

La prima cosa che balza alla vista osservando il quadro è l’ambientazione in una stalla anziché in una grotta, come spesso si vede nelle opere che trattano lo stesso tema. Il luogo è dotato di una porta sormontata da una finestra, dai riquadri della quale si nota un angelo che sale in cielo dopo aver portato l’annuncio della nascita del Salvatore ai pastori, che di notte vegliavano all’aperto facendo la guardia al gregge. E già due di essi arrivano a far visita a Gesù e dall’uscio aperto si intravvedono le loro teste e i volti che cercano di sbirciare l’interno della stalla, mentre esprimono incuriositi e sorpresi la meraviglia nel veder confermate le parole dell’angelo. Ai loro piedi è raffigurata una bianca pecorella che tenta di intrufolarsi nel locale riscaldato, oltre la porta che Giuseppe apre con la mano destra. Barocci dipinge Il falegname di Nazareth lontano dalla mangiatoia e in atto di additarla con la mano sinistra; lo pone in ombra, come a volerne sottolineare la presenza costante e protettiva nella famiglia ma sempre discreta e in secondo piano. Non è lui, infatti, il soggetto principale del quadro ma Gesù e sua madre! Della figura di Giuseppe solo la parte sinistra, volta verso il bambino, risulta illuminata: infatti il fianco, il braccio, la gamba col piede calzato dal sandalo accuratamente rappresentato si “accendono” del bagliore di una calda luce che promana dall’interno della stalla. La stessa luce investe la parte laterale del suo ampio mantello, ricco di panneggi e tinto di un bel giallo ocra, intenso e pastoso, simbolo di discendenza regale e della missione paterna assegnatagli.

Nella parte superiore e destra della tela è rappresentata un’abbondante quantità di fieno trattenuta da sottili pertiche tra le quali ne fuoriescono alcuni fili. Sotto la provvista di cibo per gli animali, un bue e un asino dagli occhioni scuri e lucidi guardano il bambino deposto nella mangiatoia e dal cui volto proviene la luce che illumina i loro musi e le loro sagome.

Ai piedi della mangiatoia, un giogo, forse dell’asinello che ha trasportato Maria nel viaggio fino a Betlemme, mostra impressi alcuni simboli astronomici, palese allusione alla collocazione dell’intera rappresentazione nel centro della storia della salvezza e nella pienezza del tempo, quando il Signore ha donato all’umanità il Messia. Per terra, sotto il piede di Maria e alle sue spalle risaltano, illuminati da una luce radente proveniente dalla culla, alcuni fili di paglia dispersi qua e là, fino al gradino dell’uscio sul quale Giuseppe appoggia il piede destro. In basso e a sinistra della tela è dipinto, con la consueta precisione che caratterizza il Barocci, un canestro di vimini dal manico intrecciato, pieno di vivande. Esso è situato su un gradone di pietra alla base del quale risalta un sacco di tela bianca colmo di grano, evidente allegoria del pane vivo disceso dal cielo.

Al centro del quadro, una giovanissima Maria incanta per la raffinatezza con la quale è dipinta, sia nella postura del suo corpo che nell’inclinazione della testa. La vergine è in ginocchio ai piedi della culla, col viso dolcissimo assorto nell’ammirata contemplazione del figlio. Le sue braccia sono aperte, in segno di accoglienza e gioiosa adorazione; i capelli castani dai toni dorati e caldi sono ordinatamente raccolti in trecce, fissati ai lati della nuca e coperti da un velo leggero. La veste ampia e gonfia è ripresa e trattenuta da una cintura, manifesta allusione alla sua maternità; il tessuto è di un bel rosa perlato, colore che indica la gioia dell’evento, cioè la nascita del Messia annunciato nei secoli, ma è anche segno di sensibilità e innocenza. La sottoveste invece, orlata di grigio chiaro e ricca di pieghe, è gialla, simbolo di luce e vita; tuttavia pur essendo di una tonalità più chiara rispetto al mantello di Giuseppe non se ne discosta nel colore, la qual cosa rimanda all’unione tra i due sposi, nella concordia e nella fede. Tutta la figura della vergine, soavemente raffigurata, è illuminata dal chiarore che diffonde il bambino deposto nella mangiatoia, verso il quale essa è rivolta.

Nella rustica zana Gesù è avvolto in fasce e coperto da un mantello blu, colore che allude all’umanità assunta nel grembo di Maria e al mistero; la sua tonalità però sfuma, fino a divenire candida nelle parti più aderenti alla testolina del piccolo, che si gira verso la madre e pare sorriderle, mentre la guarda e la irradia di una luce fulgida e purissima.

Il messaggio che trasmette l’intera opera potrebbe fissarsi proprio in quest’ultima immagine di calmo e incantevole scambio di sguardi tra madre e figlio, di intimo accogliersi e accettarsi reciproco che contraddistingue ogni maternità, di icona dell’umanità che accoglie il suo Signore in un atto che rimane immutabile per ogni generazione, per ogni tempo, così come sulla tela di Barocci. Nel quadro è il neonato dunque la sorgente dalla quale proviene la luce che rischiara le figure e l’ambiente circostante. Non esiste altra fonte luminosa nella stalla. Tutto è ravvivato e rallegrato dal bagliore divino che sprigiona il volto del bimbo, manifesta espressione della potenza di Dio.

M. S. Spiniello

redazione grey-panthers:
Related Post