Dopo la monografica dedicata a Gio Ponti, ha aperto al MAXXI di Roma, fino al 17 ottobre, un’altra grande mostra che celebra un maestro italiano dell’architettura, il primo a essersi aggiudicato, nel 1990, il prestigiosissimo Pritzker Architecture Prize (dopo di lui solo Renzo Piano, nel 1998). Nata dalla collaborazione di diverse realtà, “Aldo Rossi. L’architetto e le città“ è curata da Alberto Ferlenga, dal 2015 rettore dell’Università IUAV di Venezia, con il coordinamento di Carla Zhara Buda della Fondazione Aldo Rossi; prezioso l’apporto di Fausto e Vera Rossi e di Chiara Spangaro, curatrice della Fondazione aperta nel 2005. I materiali esposti provengono prevalentemente dall’archivio di Aldo Rossi conservato nella Collezione MAXXI Architettura e dalla Fondazione Aldo Rossi, con importanti prestiti dallo IUAV di Venezia ‒ Archivio Progetti, dal Deutsches Architektur Museum di Francoforte, dal Bonnefantenmuseum di Maastricht.
“Un poeta prestato all’architettura” lo definì Ada Lousie Huxtable, membro della giuria del Pritzker Prize 1990. Poliedrico, inimitabile, geniale, visionario. Animato da una profonda cultura e da una sensibilità poetica straordinaria. Grande innovatore e convinto sostenitore della responsabilità etica e culturale dell’architettura nei confronti del mondo.
Insomma, Aldo Rossi (Milano, 1931-97) è stato una figura atipica nel panorama architettonico italiano, parte di quella generazione di giovani progettisti che, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, erano animati da comuni intenti di ricostruzione. Formatosi tra riviste, viaggi e letture, amante di cinema e teatro, Rossi sente fortemente la necessità intellettuale di rinnovare la cultura architettonica del suo tempo. La riflessione sul rapporto tra città, società e architettura accompagna, infatti, tutta la sua vita: i fenomeni urbani, in quanto organismi complessi in continua evoluzione, sono stati il principale campo della sua indagine, in Europa, nelle Americhe, in Asia. Speciale la fascinazione per il Giappone, che lo collega idealmente ad altri architetti del calibro di Carlo Scarpa, Walter Gropius, Bruno Taut o Frank Lloyd Wright. Anche grazie alla fama editoriale di cui ha goduto, al fatto che è stato tra i primi ad aver avuto uno studio professionale multisede – a Milano, New York e Tokyo – e all’insegnamento in diverse università estere di prestigio, tra cui per esempio l’EHT di Zurigo o numerosi atenei statunitensi, Aldo Rossi resta ancora oggi uno degli architetti italiani più riconosciuti all’estero.
Attraverso una grande quantità di materiale ricostruisce la vicenda professionale di Aldo Rossi restituendone l’ampiezza dello sguardo, la complessità del pensiero e della ricerca. Oltre 800 tra disegni (tra cui quello, di 2 metri per 2, della celebre Città Analoga, memorabile riflessione su una città immaginaria, sospesa fra memoria e desiderio), schizzi, appunti, lettere, fotografie, modelli, documenti compongono un mosaico ricchissimo della sua produzione, costruttiva, editoriale e teorica, in Italia e nel mondo.
La mostra presenta un processo creativo fatto di percorsi paralleli ma complementari, ripercorrendo le tappe di una vicenda collettiva che ha portato l’architettura italiana, tra gli Anni Sessanta e Novanta del Novecento, a una riconoscibilità internazionale nel segno della città e della storia. Racconta il curatore Ferlenga di “un enorme, ‘disperatissimo’ lavoro prodotto negli anni per ridare dignità scientifica e nuovi strumenti all’architettura; fatto di scritti, disegni, progetti, opere e continuamente misurato sul passo delle città. E sono le città le protagoniste di questa mostra su Aldo Rossi, osservate e confuse tra loro dalla sensibilità del poeta e dalla profondità dello studioso unite in una figura che ha attraversato in modo del tutto singolare il panorama architettonico internazionale”.
Percorso espositivo tra Italia e resto del mondo
Ospitata nella Galleria 2 del museo, la mostra è pensata in due grandi sezioni. Raccontano l’una i progetti in Italia, l’altra quelli nel mondo. Tre i focus: il primo ripercorre gli anni della formazione a Milano; gli altri sono dedicati a due tra i progetti più iconici di Rossi, il Cimitero di San Cataldo a Modena (1971) e il Teatro del Mondo, una struttura galleggiante collocata davanti a Punta della Dogana, a Venezia, realizzata in occasione della prima Biennale Architettura, diretta da Paolo Portoghesi nel 1980.
Articolata poi in numerose sottosezioni, è organizzata secondo una spina centrale – 40 tavoli prodotti per l’occasione dal Gruppo Molteni – dove si susseguono altrettanti modelli che costituiscono l’asse su cui si appoggiano le due principali sezioni della mostra, nella quale l’espediente narrativo geografico viene declinato in 94 luoghi: come un fil rouge che tiene tutto insieme. Diversi i motivi di questa scelta: il primo è che oggettivamente Aldo Rossi ha realizzato progetti in giro per il mondo, in Europa, Asia e America, un archistar ante litteram. Inoltre, il libro L’architettura delle città – edito nel 1966 per la collana Polis di Marsilio diretta da Paolo Ceccarelli e originariamente richiesto come manuale di urbanistica – resta la sua opera teorica più famosa, tuttora tradotta e studiata. Il volume parte infatti dalla convinzione che per affrontare un tema complesso come le città serva una cultura adeguata e specifica e che i suoi presupposti possano essere trovati nell’indagine diretta e in altre discipline, purché si mantenga fermo il punto di vista dell’architettura. Completano l’allestimento, oltre che quinte e pareti ricchissime di elaborati grafici di grandi dimensioni, anche video e i Quaderni azzurri, diari con riflessioni, note, ricordi e disegni da cui sono tratte le citazioni che accompagnano tutto il percorso della mostra e arredi. Fra questi ultimi, la libreria Piroscafo, progettata nel 1991 per Molteni&C con l’amico di una vita Luca Meda, o le poltrone Parigi del 1989, prodotte da UniFor.