Mongolia a cavallo per i più sportivi

 

“Un uomo senza cavallo è come un uccello senza ali”, recita un antico proverbio mongolo. Non so altrove, ma in Mongolia è sicuramente vero. Senza questo animale l’uomo non sarebbe riuscito a colonizzare ed a sopravvivere nelle infinite steppe mongole, né a spostarsi tra il gelo torrido del lungo inverno, né a cacciare, a governare le mandrie di cavalli, capre, cammelli pelosi a due gobbe e yak, a difendersi dai nemici e poi a conquistare il maggior impero della storia, dal Pacifico al Mediterraneo, dalla Siberia all’Himalaya.

Non a caso In questo Paese  i bambini con gli occhi a mandorla, maschi e femmine, imparano prima a cavalcare che a leggere e scrivere, presentano gambe arcuate fin da piccoli, alla nascita ricevono in regalo un puledro con cui stabiliranno un rapporto quasi umano, e la più avvincente delle tre competizioni del Naadan, la festa nazionale di metà luglio, è costituita da una corsa sfrenata di puledri nella prateria per 15-30 km, dove i fantini sono soltanto bambini. E chi vince ha un anno per godersi onori e gloria.

Impossibile immaginare la Mongolia, quella di ieri e quella di oggi, senza quadrupedi, che sono in numero enormemente superiore rispetto agli abitanti, cioè i veri padroni del Paese. Il cavallo mongolo, il Takhi (Equus ferus Przewalski), progenitore di tutte le razze selvatiche e domestiche presenti sulla terra (spesso la distinzione tra animali selvatici e domestici risulta piuttosto vaga) e già ritratto tale quale sulle pareti delle caverne dall’uomo paleolitico, differisce parecchio dai nostri: piccolo e basso, poco più alto di un pony, forse non elegante ma compatto e resistente, non richiede ferratura, con il pelo lungo sopporta i proibitivi sbalzi termici di praterie e montagne, è un animale piuttosto intelligente capace di decidere da solo andatura e direzione ed esprime un’andatura a metà strada tra il trotto e il galoppo in grado di coprire tranquillamente distanze di 60 km al giorno, e per più giorni, sempre avanzando sollevando contemporaneamente i due zoccoli di uno stesso lato.

“Ciò che non riesce a stare sul cavallo è sicuramente una cosa inutile” recita un altro proverbio locale, ad indicare la parsimonia e il minimalismo di questo popolo nomade, capace di sfruttare ogni più piccola risorsa fornita dell’ambiente, ma anche con un rispetto viscerale nei confronti dell’ambiente. Prendiamo la caccia, da sempre risorsa vitale: è vietato cacciare dalla primavera all’autunno, quando gli animali hanno i piccoli, e per le lealtà si può scoccare una sola freccia; o colpisci al primo colpo, oppure nulla. Ma il takhi non costituisce soltanto il mezzo di locomozione per eccellenza: il latte delle giumente (quelle di gran lunga più impiegate) risulta infatti altamente proteico e dissetante, come pure il sangue degli stalloni, mentre entrambi forniscono con lo sterco secco il combustibile per il fuoco. Gengis Khan costruì la fortuna del suo esercito invincibile, oltre che sulle sue doti di eccelso stratega, sulla resistenza dei cavalli mongoli e sull’abilità con l’arco dei suoi cavalieri, capaci di sparare frecce in continuazione in ogni direzione fino a 250 m di distanza, il doppio di quelli europei.. E ogni cavaliere se ne andava in guerra portandosi dietro 4-5 animali e passando in continuazione dall’uno all’altro, sempre freschi e pronti all’uso, arrivando perfino a dormire in sella per più giorni. Decisamente gregari, vivono in semilibertà fino a 30-35 anni, in branchi da 5 a 15 esemplari guidati da uno stallone, sempre vigili e timorosi, con udito, vista ed olfatto assai sviluppati. Vedere le loro galoppate nel verde infinito rappresenta uno degli spettacoli migliori che la Mongolia possa regalare.

Un Altro detto sostiene che un buon cavaliere deve saper cavalcare tendendo una coppa ripiena in mano, senza mai versarne il contenuto. Curiosamente il cavallo selvatico mongolo, che per taglia assomiglia più ad un asino, fu scoperto dalla scienza soltanto nel 1881, ad opera del colonnello naturalista russo-polacco Nikolai Mikailovic Przevalski. Eppure mezzo secolo fa questo animale che arriva integro direttamente dalla preistoria, ha rischiato l’estinzione: l’ultimo esemplare in libertà è stato infatti avvistato nel 1969 nel Gobi, e le centinaia che oggi scorazzano in parchi e riserve a loro dedicati, sopravvivendo ai lupi come in quella di Hustain Nuruu a sud-ovest della capitale Ulaan Baator, derivano tutti da una dozzina di esemplari in cattività raccattati negli zoo di mezzo mondo.

L’uso del takhi costituisce certamente uno dei modi migliori, quello più naturale e tradizionale, per scoprire e percorrere la Mongolia, a stretto contatto con i suoi abitanti nomadi ed i loro peculiari stili di vita, tra infinite praterie, montagne, fiumi, laghi e cascate dove ancora oggi non esistono né strade, né piste. Secondo gli esperti non occorre essere provetti cavallerizzi, perché i docili e bassi cavallini mongoli possono montarli chiunque, sotto la guida degli esperti proprietari-addestratori, perché spesso è il quadrupede a guidare l’uomo e non viceversa. Attenzione: in lingua mongola esistono oltre 300 parole per indicare il cavallo, soltanto una per spronarlo a correre e nessuna per farlo fermare.

Tra i tanti, uno dei luoghi migliori per il turismo equestre è sicuramente la Orkhon Valley, regione vulcanica sui lati del bellissimo fiume omonimo, culla della civiltà mongola fin dall’età del Bronzo e poi terra eletta da Gengis Khan e quindi sito Unesco come patrimonio dell’umanità, tra prati verdissimi punteggiati di fiori alpini e foreste di pini, e poi la regione montuosa del parco nazionale del Khangai Nuruu, tra canyon, laghi e cascate ricco di stambecchi e di pecore argali selvatiche e tanti accampamenti di nomadi con le loro gher bianche di feltro. Le cinque giornate a cavallo prevedono una percorrenza media di 18-20 km, fino ad un’altezza massima di 2.200 m, alternando alcuni tratti a piedi, mentre il bagaglio viene trasportato con gli yak; di notte si dorme nelle confortevoli gher, con mobili e stufa, oppure in tende a igloo.

Il resto del viaggio avviene con comodi fuoristrada e prevede la visita dei pochi ma imperdibili monumenti mongoli: la capitale Ulaan Baatar (la piazza centrale con il monumento a Gengis, eroe ed emblema nazionale, il museo con gli scheletri di dinosauri del Gobi e il palazzo del Gogd Khan, ultimo capo politico e religioso della Mongolia, le dune di Bayangobi, Karakorum, l’antica cosmopolita capitale mongola, con il mastodontico monastero buddista dell’Erdene Zuu, uno dei pochi sopravissuti alla distruzione comunista.

L’operatore milanese “I viaggi di Maurizio Levi (tel. 02 34 93 45 28, ), specializzato con il proprio catalogo Alla scoperta dell’incognito in percorsi culturali ed in trekking in tutto il mondo, propone in Mongolia un itinerario di 13 giorni, come sopra descritto. Partenze individuali e di gruppo da giugno a fine agosto, guide di lingua inglese, pernottamenti in hotel, campi di gher e tende con pensione completa, quote da 1.460 euro in doppia, voli da 1.050 euro tasse incluse.

 

redazione grey-panthers:
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