Nel 1961 il MI6, il servizio di spionaggio di Sua Maestà britannica, stila una lista di nomi di suoi agenti segreti passati al Kgb sovietico. Tra questi “traditori” vi è anche John Le Carrè. “Era un periodo di confusione ideologica – racconta il grande narratore di thriller spionistici- e in quel periodo ero stato tentato di passare dall’ altra parte, di rifugiarmi nell’ Unione Sovietica, il nostro nemico mortale”. David Cornwall, il suo vero nome, ebbe la curiosità di tradire il suo paese non per ragioni ideologiche, ma solo per rendersi conto di come era la vita al di là della cortina di ferro. Poi però la ragione e la fedeltà al suo paese hanno preso il sopravvento e la sua defezione non è mai avvenuta. Nato il 19 ottobre 1931 a Poole, nel Dorset, (e deceduto qualche giorno fa) il giovane David si laurea a Oxford nel 1956 e per due anni insegna a Eton, la nota scuola dove si formano le elite inglesi. Ed è al college alla fine degli anni Quaranta che lo studente poco meno che ventenne viene reclutato per scoprire chi tra i suoi compagni di scuola lavorasse per i sovietici. Da spia di vocazione all’ arruolamento nel Foreign Service britannico il passo è breve. In Germania, la sua prima destinazione, lavora anche per i servizi segreti. Però dentro di lui cova il talento dello scrittore e nel 1961 ha già portato a termine il suo primo romanzo. Il mondo delle spie che lui sa rappresentare sarà molto diverso da quello di Ian Fleming, il padre di James Bond. “La differenza è semplice- confessa Le Carrè in un’intervista di molti anni fa-: quando uno legge i libri di Bond con le belle donne, i soldi, i luoghi esotici, le avventure a lieto fine, pensa: vorrei essere io. Quando invece legge i miei libri, con i personaggi così normali, qualche volta brutti, pieni di guai e anche di paure, pensa: potrei essere io. Sono due meccanismi diversi di identificazione con l’eroe o con l’uomo insignificante, con la vittima.
Ma il rapporto tra lettore e libro non è poi così diverso”. Nel 1963 Le Carré dopo aver scritto La spia che venne dal freddo, ma non ancora pubblicato, uno dei romanzi simbolo della guerra fredda, incontra a Bonn in Germania il regista americano Martin Ritt che aveva già acquistato i diritti del libro da lui letto sottobanco in forma dattiloscritta. Martin, vecchio comunista militante e protagonista di una stagione di lotta politica durissima nel suo paese, gli comunica la sua emozione nel aver ritrovato nel romanzo le sue convinzioni passate e il suo attuale disgusto impotente verso il maccartismo, ma anche il fallimento del comunismo e la nauseante sterilità della guerra fredda. Nel corso del pranzo al Cornaught Hotel, i due artisti si consultano sul nome dell’attore che dovrebbe interpretare l’agente segreto britannico Alec Leamas (Trevor Howard, Peter Finch, Burt Lancaster?)
e alla fine si converge sul gallese Richard Burton che in quel momento sta ottenendo un grandissimo successo in teatro a Broadway con Amleto. Le Carré però appare perplesso sulla possibilità per un uomo di fascino con la voce da baritono di potersi calare adeguatamente nel personaggio di un inglese di mezza età in balia degli eventi. Nel 1965 quando iniziano le riprese nella periferia di Dublino, dove è stato ricostruito il Muro di Berlino in tutta la sua odiosa verosimiglianza, lo scrittore incontra Burton che non vede l’ora di confrontarsi con lui per fugare i suoi dubbi e le sue paure nell’ interpretare la spia Leamas. Pochi minuti dopo Le Carré con sua sorpresa si rende conto di avere davanti a lui il protagonista del suo romanzo, quello che aveva immaginato. Burton è un perfetto agente segreto in crisi morale profonda che si muove con credibilità sul set del film immerso in un bianco e nero cupo e inquietante; un uomo dolente e crepuscolare, trasandato e ubriacone, che accetta l’incarico forse più pericoloso della sua carriera di spia ormai vicina alla pensione (restare al freddo significa per un agente segreto essere ancora operativo, prima di passare ad incarichi d’ufficio). Dovrà fingersi traditore per eliminare Mundt, uno degli avversari più temuti dell’intelligence spionistico della Germania dell’est, attraverso un complicato intrigo.
La spia che venne dal freddo, una pellicola di forte intensità, esce nelle sale cinematografiche probabilmente troppo tardi quando il filo spionistico sta cambiando in seguito al successo planetario ottenuto dal James Bond di Ian Fleming. “La performance di Richard – raccontava lo scrittore- avrebbe potuto fruttargli quell’ Oscar che gli è sfuggito per tutta la vita”. Il film, che inizia e termina sul Muro di Berlino con un colpo di scena geniale, sottolinea la mancanza di regole morali e di cinismo dei due schieramenti contrapposti riuscendo ad evidenziare con grand’efficacia e suspence un mondo in disfacimento morale da una parte e dall’altra della barricata. Nel 1966 è Sidney Lumet a portare sullo schermo il romanzo Chiamata per il morto del 1961. Tutto ruota intorno ad una telefonata anonima ricevuta a Londra che accusa l’agente del controspionaggio Samuel Fennan di essere un traditore. L’ uomo è poi trovato morto, probabilmente suicida. Le indagini sono affidate all’ agente Debbs che sospetta qualche cosa di strano. Le ricerche sembrano non portare da nessuna parte e i superiori dell’investigatore fanno pressioni per archiviare il caso come suicidio. Allora Debbs si licenzia per continuare le indagini per suo conto e arrivare alla verità. Interpretato da un ottimo James Mason, il film è basato sul personaggio di George Smiley, l’ufficiale dirigente del MI6 (La talpa, L’ onorevole scolare, Tutti gli uomini di Smiley), che lo ha consacrato come uno dei più grandi romanzieri del thriller spionistico. Il mondo da lui descritto ci mostra quanto noiosa sia la vita degli agenti segreti, dei funzionari del Foreign Office tra telefonate in codice, uffici polverosi, luoghi squallidi dove nascondersi e la paura costante di un traditore in azione all’ interno della struttura stessa. La cosa più incredibile, come hanno messo in rilievo critici cinematografici di grande prestigio, è la bravura del cinema capace di trarre dai suoi romanzi privi di avvenimenti esaltanti e spettacolari, film di ottima fattura e di grande popolarità.
La casa Russia del 1990 diretto da Fred Schepisi con Jean Connery nei panni di un editore inglese innamorato di una bella donna russa, Michelle Pfeiffer, che accetta di trasfugare un documento nucleare sovietico ai tempi della glasnost, è una pellicola tutto sommato prolissa e in parte anche noiosa, ma che ottiene egualmente buoni incassi a livello internazionale. Nel 2012 è la volta di La talpa (soggetto già trasportato in televisione nel 1982 con un Alcec Guinness strepitoso nel ruolo di George Smiley) diretto da Thomas Alfredson e interpretato da Gary Oldman, seguito nel 2014 da La spia – A most wanted man, tratto da un altro romanzo ad alta tensione che diventa un action thriller politico per la regia di Anton Corbijn, interpretato da un cast di alto livello con Philip Seymour Hoffman nella sua ultima grande interpretazione da protagonista e Rachel McAdams, Willem Dafoe, Daniel Brühl. Quando arriva inaspettata la fine della Guerra Fredda che mette in crisi il genere spionistico anche l’autore inglese deve ispirarsi per i suoi libri a tematiche e argomenti diversi e più attuali.
Nel 1996 manda alle stampe Il sarto di Panama e nel 2001 Il giardiniere tenace che diventano come sempre film: il primo per la regia di John Boorman è ambientato nel 1999, l’anno in cui il governo panamense ha nazionalizzato il canale e il secondo The Constant Gardener – La cospirazione del 2005 diretto da Fernando Meirelles e interpretato da Ralph Fiennes, è in pratica un duro attacco contro lo strapotere delle multinazionali farmaceutiche nel continente africano. Oggi a quasi ottantotto anni John Le Carré, fedele alla tradizione secolare della scrittura (le ispirazioni letterarie possono arrivare camminando, bevendo un caffè o mangiando al ristorante), vive serenamente nella sua villa sulla costa della Cornovaglia, ma non rinuncia alle sue prese di posizione pubbliche da vero liberal inglese molto arrabbiato con i disastri dell’Occidente. “Era meglio la guerra fredda- dice- che questi nuovi Muri. Io, Ian Fleming e Graham Greene avevano degli ideali, mentre ora non vi è più nulla”. La sua indignazione sarà certamente presente nei suoi futuri romanzi che il cinema non si farà sfuggire.
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