In Io capitano Matteo Garrone trova una giusta via tra realismo e sogno, tra nuda cronaca di tragici fatti e sguardo innocente su quei medesimi fatti
Deposti e furori di Gomorra (2008) e Dogman (2018) nonché accantonate le favolistiche sciocchezze del Racconto dei racconti (2015) e di Pinocchio (2019) finalmente Matteo Garrone con Io capitano trova una giusta via (non di mezzo come vedremo) tra realismo e sogno, tra nuda cronaca di tragici fatti e sguardo innocente su quei medesimi fatti. Scegliendo un tema estremamente scabroso e ultrasensibile per l’opinione pubblica italiana: l’immigrazione di massa, dove altri autori sono incappati in vistosi infortuni (vedi Fuocoammare, Gianfranco Rosi, 2016). Qui siamo piuttosto dalle parti di Lamerica (Gianni Amelio, 1994) nel senso che lo sguardo prescelto per dare l’impronta alla storia è uno sguardo non oggettivo, non asettico, ma partecipe e, per così dire, anche un po’ complice.
Lo sguardo di due ragazzi, due teenager, due giovani senegalesi che non scappano da guerre, calamità, devastazioni o persecuzioni, ma, molto più semplicemente, inseguono un sogno. Come tutti i loro coetanei in giro per il mondo. Il sogno di affermarsi come musicisti in Europa, di diventare tanto bravi e famosi al punto che “I bianchi ci chiederanno l’autografo!”.
E per inseguire quel sogno sono disposti a tutto anche, se, da bravi ragazzi, prima di partire chiedono il permesso agli antenati in una stravagante cerimonia animistica come solo in Africa può succedere. Partire a tutti i costi. Nonostante i dinieghi dei familiari e gli avvertimenti di chi quel viaggio l’ha già intrapreso perdendo per strada qualcosa di più di tutti i propri averi. Eppure i due non demordono. Decisamente la parte migliore di Io capitano è quella ambientata a Dakar, nelle povere, ma dignitose baracche dove si concentra la maggior parte della popolazione. Povera sì, specialmente a fronte dei nostri standard, ma allegra, civile, dinamica come la maggior parte della gente di quel paese che, al pari di tutti gli altri del continente nero, ha una popolazione dall’età media di 19 anni. In questa parte si fa apprezzare anche la musica, colonna sonora solidale alle immagini con le canzoni dei ragazzi e delle feste di strada, che si integra ai fatti rafforzandoli e facendosi a sua volta rafforzare. Diverso, anzi opposto, il discorso quando, nel prosieguo della storia, si insinua il fastidioso controcanto di Andrea Farri che non porta alcun contributo e, anzi, spesso e volentieri strazia inutilmente i timpani.
Uno sguardo che non nasconde le brutture, le sublima
Ma torniamo al narrato. L’odissea nel deserto del Sahara fino alle coste libiche e poi l’interminabile traversata a bordo di una carretta del mare sono le altre due ante del trittico che compone l’odissea di Seydou e Moussa. In compagnia di migliaia di altri disperati che hanno scelto di mettere a repentaglio la propria vita pur di lasciare il paese d’origine e approdare nella vecchia Europa. E qui lo sguardo si fa a volte meno oggettivo per mantenere visibile allo spettatore il fatto che di due ragazzi si tratta, ‘naïf et gamin’ come si direbbe in Francia, ossia, spontanei e ingenui fino alla dabbenaggine, incapaci di malizie, innocenti di una innocenza perduta già dopo pochi chilometri da casa. Uno sguardo che non nasconde le brutture, ma che le sublima, se così si può dire, in un desiderio di giustizia e solidarietà che, da un lato, si può materializzare solo nei sogni, dall’altro si concretizza invece nella figura paterna di un altro migrante che ti prende sotto l’ala protettiva evitandoti esperienze ancora più amare. Del resto, si sa, dell’inferno libico, dei morti lungo le carovaniere e nel fondo del Mediterraneo ci parlano quotidianamente le cronache. Come dell’ipocrisia politica europea che, nel migliore dei casi, si volta dall’altra parte e, nel peggiore, finanzia i carnefici. Ma Garrone non ha voluto fare cronaca, ha semplicemente raccontato il tragico rito di passaggio di due ragazzi dall’adolescenza all’età adulta. Meritato il Leoncino veneziano come premio alla regia. In altri festival più sciovinisti sarebbe andata persino meglio.
E allora perché vedere Io capitano?
Perché un film così è il modo migliore (per noi) di aiutarli a casa loro. E anche a casa nostra.
Dettagli del film Io capitano
sceneggiatura Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri cast Seydou Sarr (Seydou) Moustapha Fall (Moussa) Issaka Sawagodo (Martin) Hichem Yacoubi (Ahmed) Doodou Sagna (uomo degli spiriti) Khady Sy (mamma di Seydou) Bamar Kane (Bouba) genere drammatico lingua orig wolof e francese prod Italia-Belgio, 2023 durata 121 min