Le otto montagne di cui si parla non sono montagne vere, ma la rappresentazione del mondo così come è concepita dalla cultura himalayana
Sembrerebbe facile fare un buon film da un romanzo di successo, ma quasi mai è così. La spada di Damocle della pagina letteraria incombe sempre sulle immagini il più delle volte a scapito di queste ultime. Purtroppo anche il lavoro dei due Van dai cognomi impronunciabili non fa eccezione alla regola anche se si tratta di un onesto lavoro di buon artigianato cinematografico. Ma anche prescindendo dal confronto si capisce subito che le otto montagne dello schermo non hanno un focus drammaturgico sufficientemente robusto, ma divagano tra naturalismo un po’ naif e superficiali svolazzate psico-sociologiche. Emblematico, a far capire quel che stiamo dicendo, il personaggio di Giovanni, il padre di Pietro. Stressato e nevrotico non si sa perché. Non certo per il lavoro in fabbrica altrimenti avremmo le psichiatrie intasate da migliaia di ingegneri e tecnici per il solo fatto di essere tali. E dunque da dove viene quel suo malessere interiore che lo accompagna e lo arrovella tanto da rovinagli i rapporti con il figlio? Mistero. E va bene, prendiamolo com’è.
E l’avventura sentimental-ecologica di Bruno e Lara? Abbastanza strano che in epoca di agriturismi presi d’assalto dalle folle e di prodotti tipici a km zero che vanno a ruba a prezzi folli proprio la loro azienda vada a gambe all’aria. E potremmo continuare a lungo su questa strada, ma ci limitiamo a cogliere, per tutti, la breve sequenza che dovrebbe qualificare l’intera architettura narrativa del film. Quella che gli dà il titolo, così come lo dà al romanzo. Le otto montagne di cui si parla non sono montagne vere, ma sono la rappresentazione del mondo così come è concepita dalla cultura himalayana con cui viene a contatto Pietro da adulto. L’universo rappresentato da una montagna che sta al centro e da altre otto, con altrettanti mari, che la circondano. E la vita umana si articola nella scelta tra restare sulla montagna centrale o viaggiare nelle altre otto. Trasparente metafora del mondo interiore e di quelle esteriore. Del “sé” e degli “altri”, del passivo e dell’attivo non nel senso (negativo e positivo) che noi occidentali siamo soliti attribuire a questi due aggettivi, ma nel significato orientale di valori che si compendiano e compenetrano nell’armonia cosmica.
Ebbene, che riescono a fare di questa chiave di volta del racconto i Van-eccetera che stanno dietro la macchina da presa? Una ciancia ridanciana tra due amici un po’ alticci! Il che significa svuotarla completamente di significato. Raderla al suolo con un bulldozer. Non c’era bisogno di essere retorici né tanto meno enfatici. Bastava solo un po’ di serietà. E bastava, soprattutto, aver capito il senso del libro. Dopo di che il resto rimane una bella storia di amicizia virile, un’educazione sentimentale al rispetto della natura, un “volemose bene”, visto e rivisto migliaia di volte al cinema (e non solo), privo però di una sua specificità, di uno spessore, di una densità che permette allo spettatore di andare un cicinino oltre la bella inquadratura delle valli aostane e degli alpeggi che hanno fatto da set alla vicenda. Sicché, conti fatti, un film che, grazie alle pagine da cui è tratto, poteva essere non dico un capolavoro, ma almeno una bella storia esemplare e poco ordinaria, finisce con l’essere una cosa “carina” che lascia il tempo che trova. Peccato!
Infine, piccola chiosa a margine: Razzie Award (o, se preferite, Premio Cetriolo d’Oro) alla costumista Francesca Brunori che negli anni ‘80 mi veste gli alpinisti con scarponi di cuoio, pantaloni di velluto alla zuava, calzettoni di lana a coste, gli mette in spalla zaini di tela grezza e fornisce loro piccozze di legno e borracce di alluminio. Nel 1984, epoca dell’infanzia di Pietro e Bruno, esisteva già il goretex per calzature e giacche a vento, il kevlar e varie altre leghe nonché tessuti sintetici per il materiale tecnico. Nemmeno i più sprovveduti scalatori della domenica andavano in giro conciati come il Duca degli Abruzzi. Bastava chiedere a qualcuno del mestiere. Non necessariamente Reinhold Messner, magari bastava lo stesso Cognetti che ha dato una mano in fase di sceneggiatura. Pazienza!
E allora perché vedere Le otto montagne?
Perché, comunque sia, la montagna è una scuola di vita.
Dettagli del film Le otto montagne
sceneggiatura Felix van Groeningen, Charlotte Vandermeersch dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti (Einaudi) cast Luca Marinelli (Pietro) Alessandro Borghi (Bruno) Lupo Barbiero (Pietro bambino) Andrea Palma (Pietro adolescente) Cristiano Sassella (Bruno bambino) Francesco Paolombelli (Bruno adolescente) Elena Lietti (Francesca) Chiara Jorrioz (Sonia) Filippo Timi (Giovanni) Elisabetta Mazzullo (Lara) Surakshya Panta (Asmi) genere drammatico prod. Ita, Belgio, Fr 2022 durata 141 min.
DVD selezionati da Riccardo E. Zanzi, recensione di Auro Bernardi