Come sempre in partenza Nanni Moretti ci mostra la genesi di un film, il suo film, ambientato nel 1956, anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria da cui il Pci guidato Palmiro Togliatti non prese le distanze rimanendo allineato a Mosca
Per capire il senso di questo ultimo film di Nanni Moretti, per una volta, potrebbe essere utile portare a conoscenza dei lettori la genesi delle righe che state leggendo, ossia gli appunti che man mano prendiamo durante la visione. Vecchia abitudine da vecchio recensore, di quando non esistevano né file, né dvd con relativa possibilità di fermare, andare avanti e indietro, rivedere, focalizzare e così via, ma si doveva guardare lo schermo e ascoltare le battute senza perdere nulla di quanto passava sul candido lenzuolo della sala e nello stesso tempo buttar giù al buio dei memo sul candido foglio del notes. Rischiando lo strabismo a ogni riga. Un sorso di giovinezza, verrebbe da dire, come don Camillo bevendo l’olio di ricino nel Ritorno di don Camillo (1953). Ma torniamo agli appunti.
«Non è mai piacevole vedere un regista che raschia il fondo del proprio barile…». «Repertorio morettiano…». «Le petit théâtre de Nannì… (per rifare il verso a Le petit théâtre de Jean Renoir, 1970)». E in effetti il film parte inanellando una stratosferica serie di tòpoi (plurale di tòpos, parola greca che significa luogo comune stilistico, ricorrenza estetica, frase fatta, ripetizione) dei film più famosi del regista romano nato a Brunico. Le scarpe di Bianca (1984), il plaid e il divano di Sogni d’oro (1981), il girovagare in monopattino (vedi Vespa) di Caro diario (1993), le canzoni in auto della Stanza del figlio (2001) il pallanuotista ungherese Budavàri (che qui diventa un intero circo) di Palombella rossa (1989) e ci fermiamo qui per carità di patria.
Sempre in partenza il regista ci mostra la genesi di un film, il suo film, ambientato nel 1956, anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria da cui il Pci guidato dal Migliore (in arte Palmiro Togliatti) non prese le distanze rimanendo allineato a Mosca. Il film nel film dovrebbe narrare il travaglio del dirigente locale e redattore del giornale l’Unità (organo del Pci) Ennio Mastrogiovanni e di Vera, una appassionata (e pasionaria) militante di base. Nei primi 40 minuti paghiamo anche il dazio delle citazioni cinefile morettiane, dalla Caccia (1966) di Arthur Penn con Marlon Brando a Lola (1961) di Jacques Demy con Anouk Aimée a The Father (2020) di Florian Zeller con Anthony Hopkins a Breve film sull’uccidere (1988) di Kieslowski. Ci ri-sciroppiamo infine le paturnie morettiane verso il cinema di genere già ampiamente dibattute nel già citato Sogni d’oro compreso lo stop alle riprese di un film poliziesco-splatter con le compiacenti comparsate di Renzo Piano e Corrado Augias al posto degli ormai decotti Giampiero Mughini e Tatti Sanguineti.
Eppure… Eppure Moretti, dopo quasi un’ora di repertorio, ci porta su terreni (quasi) inesplorati. Ci racconta di un film che vorrebbe fare con colonna sonora delle migliori (per lui) canzoni italiane e ce le sciorina: Sono solo parole di Noemi, La canzone dell’amore perduto di De Andrè, Lontano lontano di Tenco, Voglio vederti danzare di Battiato e gli extra lista Si tu n’existais pas di Joe Dassin e, sempre in tema di scarpe, Think di Aretha Franklin direttamente dai Blues Brothers (1980). A questo punto siamo a due film in uno, con un accenno a un terzo (le piscine) e a un quarto, che si snoda come sotto testo a tutti gli altri: Le petit théâtre de Fellinì con citazione diretta della Ciangottini adolescente sulla spiaggia di Fregene (La dolce vita, 1960) e 8 e ½ (1963) che fa da spirito-guida e collante per tutta la baracca. O meglio: per tutto il circo, comprensivo di passerella finale. E il bello è che Moretti ci gioca da par suo travasando una storia nell’altra facendo sì che alcune soluzioni formali e drammaturgiche del film sulle canzoni servano a sciogliere i nodi drammatici del film sull’Ungheria. E viceversa. Una prova di talento. Con piccola chicca (da aggiungere alle altre) che resterà per sempre abbinata a questo film: il turning point e la mancanza di un momento what the fuck sparati ad alzo zero con disarmante serietà dai managerini di Netflix che gli rimandano al mittente la sceneggiatura senza uno straccio di finanziamento. Che altro aggiungere? Nell’altalenante passaggio dal segno più al segno meno dei più recenti film di Moretti (Habemus papam: più, Mia madre: meno, Tre piani: così così) qui siamo tornati al più e non è cosa da poco. Che poi alla fine ci si renda conto che, da destra o da sinistra, da sotto o da sopra, alla fine tutti, ma proprio tutti si arrendono a Fellini («Nulla si sa, tutto si immagina» ipse dixit) per noi non è una buona notizia. Senza togliere nulla a Fellini. E neanche a Moretti.
E allora perché vedere Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti?
Perché ormai Nanni Moretti andrebbe messo sotto tutela dall’Unesco in quanto parte integrante del patrimonio artistico nazionale.
Dettagli del film Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti
sceneggiatura Francesca Marciano, Federica Pontremoli, Valia Santella, Nanni Moretti cast Nanni Moretti (Giovanni) Margherita Buy (Paola) Silvio Orlando (Ennio Mastrogiovanni) Barbora Bobulova (Vera) Mathieu Amalric (Pierre) Jerzy Stuhr (Jerzy) Teco Celio (psicanalista) Valentina Romani (Emma) Arianna Pozzoli (Arianna) Corrado Augias (se stesso) Renzo Piano (se stesso) genere commedia prod. Ita, Fr 2023 durata 92 min.
DVD selezionati da Riccardo E. Zanzi, recensione di Auro Bernardi