tit orig Gisaengchun sogg Bong Joon-ho sceneggiatura Bong Joon-ho, Han Jin-won cast Song Kang-ho (Kim Ki-taek) Lee Sung-kyun (Park Dong-ik) Cho Yeo-jeong (Choi Yeon-kyo) Choi Woo-shik (Kim Ki-woo) Park So-dam (Kim Ki-jung) Lee Jung-eun (Gook Moon-gwang) Park Myung-hoon (Geun-se) Jang Hye-jin (Kim Chung-sook) Jung Ji-so (Park Da-hye) genere commedia prod Corea del Sud 2019 lingua orig coreano durata 126 min.
Dalla Palma di Cannes all’Oscar, questo film coreano arriva da noi stracarico di premi, ma, proprio per questo e data l’inflazione a tre zeri che da anni ha colpito le rassegne festivaliere, ci corre l’obbligo della manzoniana domanda: «Fu vera gloria?». Per non lasciare ai posteri l’ardua sentenza proviamo a sentenziare per conto nostro e con la nostra testa, cosa che dovrebbe fare non solo ogni critico cinematografico serio, ma ogni singolo spettatore. In primis la trama: la famiglia Kim (padre, madre, due figli adolescenti, maschio e femmina) vive in un seminterrato in un quartiere popolare di Seul e tira avanti con lavori precari. Fino a quando un amico del ragazzo lo mette in contatto con i piani alti della città ossia con la famiglia Park, upper class, alloggiata in una lussuosissima villa con giardino. Intrufolato come precettore di inglese per la figlia dei proprietari, il giovane riesce a far assumere la sorella come maestra di disegno per il figlio piccolo. Con l’ausilio della tecnologia digitale e di un bel po’ di faccia tosta i due ragazzi riescono a imboscare anche papà come autista. Sembrerebbe la fine della precarietà e della miseria, se non che l’appetito vien mangiando e all’appello manca mammà destinata a rimpiazzare la governate di casa.
La vecchia domestica era passata al servizio dei Park dal precedente proprietario della villa di cui conosce tutti i meandri più segreti. Anche se la prova è ardua, la “banda dei quattro” riesce nell’intento e quando finalmente anche i padroni levano le tende per una vacanza si fa baldoria alle spalle degli ignari e ingenui datori di lavoro. Omettiamo di raccontare il resto anche perché la parte del film che presenta un certo interesse è giusto questa prima metà. Una bella pochade in crescendo, con i ritmi e le battute giuste, le entrate e le uscite dei personaggi come in un congegno a orologeria con un’efficacia scenica di rara bravura. Non manca nulla, neppure la musica del minuetto. Purtroppo però il film prosegue. Prosegue con il ritorno in scena della vecchia governante e da questo momento la commedia vira al grand guignol. Peccato, perché la pochade poteva avere, in filigrana, un certo interesse: le disparità di classe nelle società avanzate, la rivalsa “proletaria” sull’alta borghesia che oggi non si incanala più nella ribellione quanto piuttosto nell’emulazione, e un sano pessimismo sui rapporti umani condizionati da troppe sovrastrutture consumistiche e modelli sbagliati di economia di mercato. Peccato, appunto, perché si può (anzi si deve) castigare i costumi anche col sorriso sulle labbra. Invece il regista preferisce buttarla in caciara nella maniera peggiore. Demolendo con le sue stesse mani quanto di buono aveva costruito per allinearsi allo splatter di un qualsiasi Tarantino di terza categoria. Alla fine l’esito generale è inficiato e alcune scene, tipo il party finale nel giardino, risultano non solo sgradevoli, ma anche inutilmente forzate all’unico scopo di colpire allo stomaco lo spettatore. Bilancio conclusivo? Opera sbagliata, film fallito a dispetto di premi & cotillons. Peccato perché in altre occasioni (per es. Madre, 2009) Bong Joon-ho aveva dato prove migliori. Speriamo solo che si rimetta presto in carreggiata.
E allora perché vederlo?
Perché tutto il mondo è paese. Per davvero.