Pluripremiato film belga, Close racconta la giovane amicizia tra Lèo e Rémi, che sfocia in un finale tragico. Film che però appare sbagliato, prolisso e irritante
Cercando su internet, da www.instinctmagazine.com – definito il sito Lgbt preferito nelle Americhe – si apprende che Lukas Dhont è considerato (testuale): “Il principe del cinema di formazione queer”. Wow! Carriera fulminea quella del regista belga che al secondo film (il primo, Girl del 2018, raccontava di una ballerina transgender) è già principe senza nemmeno passare per i gradi intermedi della nobiltà tipo conte, marchese o duca! Ma chi, o cosa, è queer? Sintesi fra Treccani e Wikipedia: “Il termine anglosassone queer, che sta per “strano”, “bizzarro”, in campo sessuale indica un’identità “fluida”. Come a volte succede nell’adolescenza quando il soggetto è alla ricerca della propria identità (anche sessuale) e comunque del proprio posto nella vita”. Sempre dalla fonte Lgbt apprendiamo inoltre che il soggetto di Close “si basa sulle esperienze di Lukas a scuola, poiché i suoi tratti ‘molto effeminati’ erano diventati oggetto di scherno”, che Lukas è apertamente gay e che anche suo fratello minore Michiel, con il quale ha creato Close come produttore, è gay. Sia chiaro una volta per sempre: che regista, produttore e financo tutta la troupe abbiano un certo orientamento sessuale piuttosto di un altro non significa nulla ai fini della resa estetica di un film. Di registi omosessuali è piena la storia del cinema, più o meno bravi, più o meno geniali. E non è neppure detto che un regista gay debba per forza trattare temi relativi al proprio mondo anche se ultimamente, grazie alla caduta dei tabù sul tema, si assiste a una certa maggiore insistenza rispetto al passato. Ma tant’è: continua a non essere l’abito a fare il monaco.
La trama del film queer Close
Tutta questa premessa per dire cosa? Che Close è un film sbagliato, prolisso e irritante non certo perché il regista e suo fratello sono gay o perché tratta di queer, ma proprio per come è pensato, costruito e realizzato. Vogliamo dirla tutta? È esattamente l’argomento trattato che ha mandato fuoristrada la critica più superficiale. Che ha confuso la scabrosità del tema con la maniera in cui è stato espresso. E poi dicono che gli esegeti non dovrebbero essere “contenutisti”… Ma veniamo al dunque.
Protagonisti sono due ragazzini di 12-13 anni: Léo, biondo figlio di floricoltori, e Rémi, un morettino che suona l’oboe. Amici per la pelle tanto che Léo è praticamente installato chez Rémi in pianta stabile. Non per nulla sua mamma, mentre il figliolo le sfreccia accanto per correre dall’amico, gli/si domanda: “Tornerai a casa qualche volta?”.
I due dormono l’uno accanto all’altro e sono inseparabili in tutto il resto. A scuola e nei giochi. Da uno, in particolare, il regista prende le mosse per introdurre in scena i suoi personaggi. Nuovo anno scolastico, nuova classe, ma i due sono ancora insieme e sempre più affiatati. Finché (ma è già passata una buona mezz’ora di inutili smancerie) qualcosa si spezza. Il gioco che abbiamo visto all’inizio viene replicato, ma stavolta qualcosa non funziona. I due non reagiscono più all’unisono, non sono più sulla stessa lunghezza d’onda. È la cosa migliore del film, un non detto più espressivo di mille languide inquadrature dei due sotto le coperte e degli inconcludenti, prolissi dialoghi sbrodolati fino a quel momento. L’effetto viene peraltro subito azzerato dal successivo litigio tra i due (sempre a letto) e dalla successiva sceneggiata di Rémi a colazione. A cui si aggiungono gli sfottò dei compagni di classe che leggono tanta complicità con una certa fanciullesca malizia. Che sembra lasciare indifferente Rémi, ma che punge sul vivo Léo. Il quale, per dissipare gli equivoci, si arruola nella squadra scolastica di hockey su ghiaccio: lo sport più rude e “macho” che si possa immaginare. Poi, e siamo al 40° minuto, non di gioco, ma di film, la tragica notizia per la cui catarsi il regista impiega tutta l’ora successiva. Decisamente troppo.
Il suicidio, altro tema di Close
Parlando, ahimè, per esperienza personale, vi garantisco che la prima cosa che un genitore fa quando un figlio, un figlio giovane, si suicida è chiedere conto agli amici. Subito, immediatamente, appena avvenuto il fatto. Appare veramente inverosimile che la mamma di Rémi aspetti settimane per incontrare Léo e che non gli chieda nulla. Così come negli incontri successivi fino alla scena nella foresta, a sua volta sballata da tutti i punti di vista. Non solo arriva fuori tempo massimo, ma è retorica e forzata quanto la macchina da presa che vorrebbe sottolineare il pathos stando appiccicata ai personaggi col risultato di essere semplicemente fastidiosa per il continuo sfarfallio della ripresa a mano.
Ma vi sembra normale che una madre, al miglior amico del proprio figlio, la prima volta che lo incontra a quattrocchi dopo la tragedia, faccia domande di questo tipo: “Come va a scuola?” risposta: “Bene”. “Come sono i prof?” risposta “Alcuni bravi, altri noiosi”. “È sempre così, dimentica i noiosi e concentrati sui bravi…”. Segue un fugace accenno alla camera dell’amico, subito ritirato, poi, fuori, sull’ennesima corsa di Léo, cade, copiosa, la pioggia. Si sa che il clima del Belgio è umido, ma, chissà perché, piove solo in questa scena mentre per il resto del film (e sui giorni felici) splende un sole tropicale.
L’apice di idiozia nei dialoghi si raggiunge però nel sublime sermone funebre sulla bara di Rémi e sul relativo, insistito primo piano di Léo. Riportiamo testualmente: “In primavera sbocciano i fiori, gli uccelli tornano dal Sud, l’ultima neve si scioglie. E poi arriva l’estate: gli alberi sono verdi, pieni di foglie, che poi in autunno diventano gialle, poi rosse e poi marroni fin quando cadono. Gli alberi spogli preannunciano l’inverno. Giornate corte, buie, fredde, e poi i crocus riappaiono e anche i fiori e così via…”. Manca solo: “L’acqua è umida, il fuoco scotta e se non è zuppa è pan bagnato”. Nemmeno il grande Ettore Petrolini era arrivato a tanto con il suo nonsense del pesce: “Come si fa a sapere se un pesce è maschio o femmina? Se viene su lui è maschio, se viene su lei è femmina…”. E questa sarebbe una sceneggiatura, per Close, da Oscar, European Award, Premio Magritte (gli Oscar belgi) e via enumerando? Per non parlare delle altre 50mila candidature (regia, film, attori ecc) nessuna andata peraltro a buon fine eccetto una palmetta di riporto a Cannes.
Per quanto riguarda la scelta narrativa di Close ci troviamo di fronte a una macchina da presa per il 99% del tempo incollata ai primi piani dei protagonisti, sui loro sguardi languidi, oppure in interminabili carrellate. Carrellate sulle corse tra i prati in fiore, carrellate sulle pedalate in bici tra casa e scuola, carrellate sulle ricreazioni in cortile, carrellate sulle azioni di gioco sulla pista di hockey… Lì, la cinepresa è sempre lì, appiccicata al muso dei poveri ragazzini che, per quanto bravi e volonterosi nella parte, non sono attori professionisti e dunque non in grado di reggere così a lungo l’intensità dell’inquadratura. È il minimo che possa succedere. E per soprammercato una scelta fotografica dai toni caramellosi su cui si sovrappone una musica altrettanto melensa. A rischio di diabete.
E allora perché vedere Close?
Perché se un film così serve a diventare principe noi ci dichiariamo fermamente e convintamente repubblicani.
Dettagli di Close
titolo orig. idem sceneggiatura Lukas Dhont, Angelo Tijssens cast Eden Dambrine (Léo) Gustav de Waele (Rémi) Émilie Dequenne (Sophie, mamma di Rémi) Léa Druker (Nathalie, mamma di Léo) Kevin Janssens (Peter, padre di Rémi) Marc Weiss (Yves) Igor Van Dessel (Charlie) Léon Bataille (Baptiste) genere drammatico lingua orig. francese e fiammingo prod Belgio, Olanda, Francia 2022 durata 104 min.
DVD selezionati da Riccardo E. Zanzi, recensione di Auro Bernardi