Da vedere nelle arene all’aperto: “Marie Curie” di Marie Noëlle

titolo orig. id. sceneggiatura Marie Noëlle, Andrea Stoll cast Karolina Gruszha (Marie Curie) Arieh Worthalter (Paul Langevin) Charles Berling (Pierre Curie) Iza Kuna (Bronia) Malik Zidi (André Debierne) André Wilms (Eugène Curie) Marie Denarnaud (Jeanne Langevin) Jan Frycz (Ernest Solvay) Samuel Finzi (Gustave Téry) Piotr Glowacki (Albert Einstein) genere biografico prod. Francia, Germania, Polonia 2019 durata 100 min.

 

Scienziata due volte Premio Nobel, femminista ante litteram, moglie, madre, amante… Indubbiamente la figura di Maria Salomea Skłodowska, meglio nota con il cognome del marito, Pierre Curie, è di quelle che si prestano a letture trasversali e metastoriche. Figure esemplari, insomma, che aiutano in ogni tempo a capire di più e meglio chi siamo (noi tutti esseri umani) e cosa ci facciamo su questa terra. Ed è appunto l’intento pedagogico che informa di sé il film di Marie Noëlle, supportato, nel ruolo principale, da un’ottima interprete come Karolina Gruszha. La stessa scelta del periodo narrato, sull’intero arco di vita della scienziata, è sintomatico. Si tratta infatti degli anni tra il 1903 e il 1911, ossia tra i due Nobel, ma anche nel periodo che comprende la nascita della secondogenita (1904), la morte di Pierre Curie (1906), l’assegnazione della prima cattedra della Sorbona a una docente donna, l’ingresso nell’Accademia di Francia e l’avvio della relazione con il collega Paul Langevin. Insomma: un bel mix di passioni, pulsioni, battaglie, scandali e tragedie che un cinema jolie come quello della regista sa frullare nel mixer alle giuste dosi per compiacere il pubblico. Specialmente femminile.

I limiti del lavoro di Marie Noëlle sono infatti tutti formali, con quell’uso insistito ed esibito dei luoghi comuni più corrivi del linguaggio filmico: l’acqua, gli specchi, le trasparenze, le sovraesposizioni, i flou su volti e incarnati, la pioggia nel momenti del dolore, la musica melensa, per quanto discreta. E pensare che si era partiti bene, con quel materiale di repertorio della Parigi inizio secolo scorso che ci faceva pregustare un distacco dalla materia a vantaggio appunto di un maggior senso storico. Che ritorna, ahimé, solo alla fine, con gli originali titoli di coda. Dove gli attori nei loro costumi primo ‘900 camminano per le distratte vie della Parigi di oggi. Tra file di auto e passanti indifferenti. A rimarcare la continuità tra passato e presente e rimarcare che senza quei nostri vicini antenati, oggi saremmo tutti un po’ più deboli e ignoranti. Peccato che, di mezzo, ci sia poco più che una fiction (un tempo si sarebbe detto uno “sceneggiato”) marcatamente televisiva. D’altra parte, per vendere, oggi da lì bisogna passare.

 

E allora perché vederlo?

Perché anche i Nobel hanno un cuore.

Auro Bernardi: Nel 1969, quando ero al liceo, il film La Via Lattea di Luis Buñuel mi ha fatto capire cosa può essere il cinema nelle mani di un poeta. Da allora mi occupo della “decima musa”. Ho avuto la fortuna di frequentare maestri della critica come Adelio Ferrero e Guido Aristarco che non mi hanno insegnato solo a capire un film, ma molto altro. Ho scritto alcuni libri e non so quanti articoli su registi, autori, generi e film. E continuo a farlo perché, nonostante tutto, il cinema non è, come disse Louis Lumiére, “un'invenzione senza futuro”. Tra i miei interessei, come potrete leggere, ci sono anche i viaggi. Lo scrittore premio Nobel portoghese José Saramago ha scritto: “La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna ricominciare a viaggiare. Sempre”. Ovviamente sono d'accordo con lui e posso solo aggiungere che viaggiare non può mai essere fine a se stesso. Si viaggia per conoscere posti nuovi, incontrare altra gente, confrontarsi con altri modi di pensare, di affrontare la vita. Perciò il viaggio è, in primo luogo, un moto dell'anima e per questo è sempre fonte di ispirazione.
Related Post