Al cinema, per apprezzare “Honeyland”, di Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov
tit orig Medena Zemja sceneggiatura Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov cast Hatidze Muratova (Hatide) Nazife Muratova (Nazife) Husein Sam (Husein) Ljutvie Sam (Ljutvie) gen drammatico prod Macedonia del Nord, 2019 durata 89 min lingua orig dialetto turco-macedone
Ma ci sono ancora delle Hurdes in Europa nel terzo millennio? Allo spettatore cinefilo-bunueliano è la domanda che sorge spontanea alla visione di questo piccolo-grande film venuto dai Balcani. Più esattamente dalla Macedonia del Nord, forse il meno sviluppato degli stati sorti dal disfacimento dell’ex Jugoslavia. Un fazzoletto di montagne tra Albania, Bulgaria, Grecia, Serbia e Kosovo. È qui che i registi Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov hanno scovato… Ma andiamo con ordine e chiariamo, ai cinefili non bunueliani, cosa sono le Hurdes. Quando nel 1932 in Spagna cade la monarchia e si instaura la repubblica, il regista Luis Buñuel, che da sette anni vive a Parigi dove ha girato i capolavori surrealisti Un chien andalou (1929) e L’âge d’or (1930), torna in patria e, nella primavera del 1933, realizza un film-denuncia sulle condizioni di una delle regioni più povere del paese, in Estremadura, a 100 km da Salamanca: Las Hurdes, appunto, il cui nome diventa titolo del film. Sono 32 minuti di denuncia sociale e antropologica tanto forte che le deboli autorità statali non hanno il coraggio di mostrare al mondo. Il film uscirà infatti in Francia tre anni dopo, alla vigilia di quella Guerra Civile che spazzerà via il sogno repubblicano. Una delle scene più forti del film è quella in cui un asino viene ucciso da uno sciame di api di cui trasporta le arnie. Arnie al cui interno c’è un miele amaro, perfetta metafora delle condizioni di vita degli hurdanos. Ebbene, tornando a oggi e a Honeyland, i due giovani registi al loro esordio nel lungometraggio hanno fatto qualcosa di simile anche se, cambiati i tempi, l’obiettivo è a sua volta molto cambiato.
Non diverso è invece il contesto in cui vive Hatidze, donna sulla cinquantina, che accudisce l’anziana madre Nazife in un villaggio abbandonato di casupole in pietra a secco. Senza acqua corrente né elettricità. Siamo a qualche ora di autobus e treno da Skopje, la capitale, ma qui il tempo sembra essersi fermato. O meglio: Hatidze lo scandisce giorno per giorno con i ritmi ancestrali della raccolta del miele da favi selvatici o da rudimentali arnie domestiche. Mantenendo i ritmi delle stagioni e, soprattutto, prelevando lo stretto necessario per vivere, per curare gli acciacchi della madre e concedersi qualche piccolo lusso come una tintura per capelli. Sicuramente senza saperlo, Hatidze non fa altro che applicare il complicato Protocollo di Nagoya stilato dalle teste d’uovo di mezzo mondo in fatto di “Accesso alle risorse genetiche e all’equa condivisione dei loro benefici”. In altre parole coltiva e mantiene la biodiversità. Il problema dei problemi del XXI secolo: le risorse del pianeta. Così come 87 anni fa a un poeta-cineasta balzò chiaro agli occhi che non era la forma di governo a fare la differenza, ma la giustizia sociale: il problema dei problemi del ‘900. Ma anche il “piccolo mondo antico” di Hatidze non è esente dai rischi della globalizzazione. Rappresentato da un’esuberante famiglia di mandriani nomadi che si installa nei terreni incolti del suo villaggio. Della sua stessa etnia, con la sua stessa lingua, ma lontani anni luce dalle sue radici. Specialmente quando il capofamiglia viene tentato dal più moderno dei diavoli dell’inferno capitalista: il profitto. O meglio: il profitto facile. Nonostante l’apparenza, Honeyland non è un documentario (anche se viene spcciato per tale) così come non lo era Las Hurdes. C’è una storia, una tesi, una dialettica anche nelle immagini che coprono l’intero arco dell’anno con le relative stagioni. Ci sono conflitti e complicità (tra Hatidze e uno dei figli di Husein, per esempio) e c’è soprattutto il senso autentico della vita. Che oggi, grazie anche a movimenti come Friday for Future, non può più consistere nell’ultimo modello di auto di lusso, ma in aria e acqua pulite. E in un alveare da cui prendere solo la metà del miele per lasciarne il resto alle api.
E allora perché vederlo?
Perché il pianeta su cui viviamo è questo. E non ne abbiamo altri di riserva.
Auro Bernardi: Nel 1969, quando ero al liceo, il film La Via Lattea di Luis Buñuel mi ha fatto capire cosa può essere il cinema nelle mani di un poeta. Da allora mi occupo della “decima musa”. Ho avuto la fortuna di frequentare maestri della critica come Adelio Ferrero e Guido Aristarco che non mi hanno insegnato solo a capire un film, ma molto altro. Ho scritto alcuni libri e non so quanti articoli su registi, autori, generi e film. E continuo a farlo perché, nonostante tutto, il cinema non è, come disse Louis Lumiére, “un'invenzione senza futuro”.
Tra i miei interessei, come potrete leggere, ci sono anche i viaggi. Lo scrittore premio Nobel portoghese José Saramago ha scritto: “La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna ricominciare a viaggiare. Sempre”. Ovviamente sono d'accordo con lui e posso solo aggiungere che viaggiare non può mai essere fine a se stesso. Si viaggia per conoscere posti nuovi, incontrare altra gente, confrontarsi con altri modi di pensare, di affrontare la vita. Perciò il viaggio è, in primo luogo, un moto dell'anima e per questo è sempre fonte di ispirazione.