tit. orig. Yi miao zhong sceneggiatura Zhang Yimou, Jingshi Zou, Geling Yan cast Zhang Yi (Zhang Jiusheng), Liu Haocun (Liu Guinu) Fan Wei (Fan Dianying, Signor Cinema) Ailei Yu (Cui) Xiaochuan Li (lo Chef) genere commedia lingua orig cinese prod Cina 2021 durata 104 min.
Un omaggio al cinema, un atto d’amore per il cinema da parte di uno dei pochi grandi maestri ancora in circolazione. Tutta la vicenda narrata ruota infatti attorno a una bobina di pellicola che tre personaggi si contendono con scopi diversi. Siamo nella Cina della Rivoluzione Culturale maoista e il primo dei tre che entra in scena è Zhang, scappato da un centro di rieducazione dove era stato rinchiuso per aver insultato una Guardia Rossa. Per questa sua “macchia” la famiglia l’ha emarginato e lui insegue la bobina di celluloide perché un amico gli ha scritto che in quelcinegiornale compare sua figlia. Il secondo personaggio è Liu, ragazzetta che ha l’età della figlia di Zhang, ma ancora meno fortunata in quanto orfana e con un fratello minore da accudire.
A lei il film interessa semplicemente per il materiale con cui è fatto: le strisce di celluloide con cui, nell’economia di sussistenza che si vive in quegli anni nel gigante asiatico, si possono ricavare oggetti di uso comune come i paralumi. La bobina finisce così per essere un po’ come il biglietto vincente della lotteria nel film Il milione (1931) di René Clair (soggetto ripreso nel 2016 dal romeno Paul Negoescu) ossia il motore di un’infinita serie di furti, scambi, inseguimenti, recuperi e altre amenità che portano i due contendenti nello sperduto paese rurale dove troneggia il terzo personaggio, Fan Dianying. Costui, chiamato da tutti con il nome del suo mestiere, è il Signor Cinema ossia il proiezionista che in una rustica sala deve intrattenere la popolazione con il film a soggetto e, appunto, il cinegiornale. Tra i tre personaggi si instaura così una sorta di intreccio esistenziale (simile per certi versi all’intreccio della pellicola nei meccanismi del proiettore) che li porta a entrare, ciascuno, nella dimensione dell’altro.
Nei suoi problemi, nelle sue debolezze, nelle sue aspirazioni. In un contesto, come quello della Cina di Mao, in cui i film di finzione dovevano servire a rafforzare la fede nel Partito al governo e i cinegiornali a esaltare le conquiste del proletariato. Detto questo, va aggiunto subito che la parte migliore del film sono i due terzi iniziali, con i conflitti e il graduale disvelamento delle motivazioni che spingono ciascuno a perseguire il proprio obiettivo, mentre l’ultimo terzo risulta eccessivamente annacquato. Con un finale un po’ troppo consolatorio in cui un padre senza più figlia e una figlia che non ha mai avuto un padre si ritrovano insieme, sotto un cambio di regime documentato dal diverso abbigliamento, per proseguire, chissà, un percorso iniziato anni prima e bruscamente interrotto. Un effetto della censura che, a quanto pare, ha limitato la libertà creativa del regista e ritardato l’uscita del film? Può essere. Sta di fatto che comunque i primi 70-80 minuti sono un trionfo di bellezza e di trovate sceniche in un contesto naturalistico (il deserto) narrato a sua volta come un vero e proprio personaggio. Dal momento in cui Zhang ottiene di vedere e rivedere quasi all’infinito il misero, breve secondo in cui sua figlia compare nel cinegiornale la storia si avvita un po’ su se stessa e perde mordente. Ma siamo comunque di fronte a un’opera che non ha paragoni nel panorama contemporaneo.
E allora perché vederlo?
Perché anche grazie all’Occidente la Cina è, e continua a essere, la summa planetaria delle contraddizioni: economiche, politiche e sociali.