tit. orig. Sheytān vojud nadārad sceneggiatura Mohammad Rasoulof cast Ehsan Mirhosseini (Heshmat) Shaghayegh Shourian (Razieh) Kaveh Ahangar (Pouya) Alireza Zareparast (Hasan) Salar Khamseh (Salar) Darya Moghbeli (Tahmineh) Mahtab Servati (Naana) Mohammad Valizadegan (Javad) Mohammad Seddighimehr (Bahram) Jila Shani (Zaman) Baran Rasoulof (Darya) genere drammatico lingua orig farsi prod Iran, Germania, Rep. Ceca 2020 durata 150 min.
Avete presente Beve film sull’uccidere (1988) di Krzysztof Kieslowski che, a dispetto del titolo, è la versione “lunga” (84 minuti) di Decalogo V? Ecco: 32 anni dopo e con 66 minuti in più questo film iraniano ci riporta esattamente lì dove ci aveva lasciati il povero Kieslowski: alle soglie di un patibolo. Ovvero a quell’omicidio legalizzato che si chiama “pena di morte”. Con questa ulteriore differenza: mentre, al contrario della Polonia comunista del secolo scorso, nella Polonia nazionalista e sciovinista del terzo millennio la pena di morte non esiste più, l’Iran di oggi è il paese stabilmente in cima alle classifiche mondiali dei delitti compiuti in nome dello stato insieme con altri specchi di democrazia quali Cina e Arabia Saudita. Piccola parentesi: più complessa la situazione negli Usa in cui la pena capitale si applica solo (si fa per dire) in 27 dei 52 tra stati e territori federati, il che contribuisce comunque a collocare anche il paese stelle-e-strisce nei pani alti dell’ignobile graduatoria. Ma torniamo al film di Rasoulof, meritato Orso d’oro a Berlino due anni fa. A ritirare l’ambita statuetta è stata la figlia del regista, Baran (che vi recita anche in una piccola parte) in quanto l’autore era agli arresti domiciliari, senza passaporto, con l’ingiunzione di non girare altri film per due anni e dopo essersi fatto una breve “villeggiatura” in carcere, condannato per “propaganda ostile”.
Dunque Rasoulof conosce bene, per esperienza diretta, ciò di cui parla nel film ossia le patrie galere dove a eseguire materialmente le sentenze capitali (ossia, come si dice in gergo nel film, a “togliere lo sgabello da sotto i piedi del condannato”) non sono solo carnefici di professione, ma anche soldati di leva, ossia ragazzi normali che il servizio militare sono obbligati a farlo dovendo sottostare anche a questa inumana corvè. Pena, se si rifiutano, di finire a loro volta nel tritacarne di leggi liberticide. Il primo merito del regista è aver trattato l’argomento con estrema delicatezza, ossia per vie traverse. Calandosi nei personaggi con la dovuta umanità, ma senza la minima edulcorazione. Come nel caso di Heshmat, protagonista del primo dei quattro episodi in cui è diviso il narrato, marito e padre amorevole nonché buon figliolo dell’anziana genitrice. Generoso e accomodante con tutti, oltre che con le tre donne di casa, Hesmat nasconde però un segreto che lo porta, quasi ogni notte ad allontanarsi da casa per compiere il proprio lavoro. Un’occupazione che tuttavia sembra toglierli altrettanto quotidianamente la gioa di vivere. Svuotandolo come in un’infinita agonia. Sia pur un po’ pallosetto e prolisso, questo primo episodio è il giusto viatico per i due successivi i cui protagonisti sono appunto due ragazzi di leva che si trovano a che fare con il famoso
E allora perché vederlo?
Perché film così vanno semplicemente visti. Punto.