Ridley Scott torna con il fortunato personaggio che ha sbancato al botteghino 24 anni fa. Una furbesca ‘operazione nostalgia’, ma che può essere solo quella della generazione senior cresciuta a pane e peplum negli anni ‘50-60 del secolo scorso
Qualcuno ancora insiste a considerare Ridley Scott un grande autore se non un maestro del cinema, acclamando e osannando ogni sua nuova uscita, accomodiamoci in platea e sciroppiamoci questa baggianata che dovrebbe essere l’ennesima pietra miliare della settima arte. Cosa fa, in buona sostanza, sir Scott per imbandire la nuova fracassona versione del fortunato personaggio che ha sbancato al botteghino 24 anni fa? Una furbesca ‘operazione nostalgia’, ma non senso che alcuni giovani virgulti della critica italica hanno creduto di vedere. No! La nostalgia può essere solo quella della generazione senior cresciuta a pane e peplum negli anni ‘50-60 del secolo scorso. Quel fortunato genere venuto prima dei western spaghetti che imbambolava le masse nei cinema dell’oratorio o delle periferie con i Romoli e Remi, i Maciste, i Ben Hur, le Cleopatre, le Tuniche, i Colossi di Rodi (opera prima di un certo Sergio Leone) e via enumerando. Quando andava bene c’erano scene di massa con migliaia di comparse, stuntman votati alle giravolte più azzardate e duelli all’ultimo sangue tra il ‘vilain’ e l’eroe. Quando andava male, fondali dipinti e lussureggianti giardini fioriti di agavi e popolati di pappagalli, bancarelle con ceste di peperoni e banchetti con fruttiere di ananas notoriamente importati dall’America qualche secolo prima della sua scoperta. Ma torniamo al ‘maestro’ Scott e alla critica che non si perita di definire “epico, potente e, a tratti, addirittura visionario” questo polpettone senza capo né coda. E meno male che è visionario solo a tratti, altrimenti altro che Mediugorje! Ma andiamo con ordine.
Il ‘capolavoro visionario’ si segnala essenzialmente come festival del luogo comune e della banalità di genere. Scopiazzatura degli stereotipi di Hollywood anni ‘50 tirati a lucido con overdose di computergrafica. Da un fracassone assedio a un combattimento nell’arena con enormi scimmie, è tutta un’enfasi in crescendo. Non bastano le scimmie? Mettiamoci il gladiatore a cavallo di un rinoceronte, pachiderma notoriamente mansueto alle briglie. Scopiazziamo la battaglia navale di Ben Hur (1959) perché le fonti ci dicono che al Colosseo si svolgevano anche naumachie, ma aggiungiamoci un bel branco di squali che azzannano i malcapitati finiti in acqua. Massì, abbondiamo! Punto, duepunti, punto e virgola! (Totò, Peppino e… la malafemmina, 1956).
Vogliamo parlare dagli imperatori, Geta e Caracalla, dinastia dei Severi, inizio III secolo? Debosciati, sadici, lussuriosi, assassini e… dai capelli color carota. Dal Nerone di Quo Vadis, (1951) i sovrani isterici vestono parrucche alla Sinner. Ma un conto è se ti chiami Peter Ustinov, altro paio di maniche le figurine liebig Quinn e Hechinger. Con questa doverosa precisazione storica: Caracalla fu tutt’altro che un imperatore pervertito e perverso, anzi: fu un sovrano illuminato. Al punto da concedere nel 212 a tutti gli uomini liberi residenti entro il limes (confine) la cittadinanza romana. Una decisione lungimirante e densa di significati. Per quanto riguarda le faide familiari, vero che era costume tra i regnanti assassinare i consanguinei, potenziali pretendenti al trono, ma non era una pratica esclusiva di questo o quel clan bensì una passi diffusa a tutti i livelli e proseguita per secoli anche nell’impero (cristiano) dei bizantini.
La precisazione ci porta alla vagonata di blooper di cui Scott infarcisce le sue storie. A cominciare dalla maldestra scopiazzatura della battaglio sul ghiaccio dell’Aleksander Nevski (1937) di Sua Maestà (S.M.) Ejzenstejin nella spacconata di Austerltz in Napoleon (2023) alla citata (qui) battaglia di Salamina tra “troiani e persiani” (peccato che erano greci e non troiani). Alla maquette di Roma su un ermo colle con il Colosseo alla sommità mentre è costruito nella parte più bassa del declivio tra il Colle Oppio e il Palatino. Stendiamo ancora un velo pietoso sui calici di vetro per i brindisi al Bar del Foro, il fuoco greco sulle navi (invenzione del V sec.) e le solite, stucchevoli selle e briglie anch’esse introdotte nel medioevo. Del resto basta guardare il Marco Aurelio in Campidoglio (di qualche decennio anteriore a Caracalla) per capire che i romani cavalcavano a pelo e senza staffe.
Altro pietoso velo sulle prestazioni del cast con un Paul Mescal meno espressivo di un ciocco di legno e un Denzel Washington visibilmente preoccupato che tutto finisca il più in fretta possibile per passare in amministrazione a riscuotere il cachet.
Infine una chiosa a proposito della giovane critica infiammata di sacro furore per il ‘maestro’ Scott. Ebbene, alla proiezione in anteprima riservata alla stampa abbiamo visto alcuni di questi virgulti prendere posto in sala armati di secchielloni di pop corn e lattine maxi di Coca Cola come dei quindicenni qualsiasi. Se possiamo permetterci, una simile attrezzatura dovrebbe essere vietata per legge nell’esercizio della critica in quanto incompatibile con il funzionamento delle meningi. Infatti poi si legge: “Epico… Potente… Visionario…”. Il cinema al pop corn.
Dettagli del film di Ridley Scott
titolo orig Gladiator II sceneggiatura David Scarpa da un soggetto di David Franzoni cast Paul Mescal (Lucio Vero) Pedro Pascal (Marco Acacio) Connie Nielsen (Lucilla) Denzel Washington (Macrino) Joseph Quinn (Geta) Fred Hechinger (Caracalla) Derek Jacobi (Gracco) genere storico lingua orig inglese prod Usa, GB 2024 durata 145 min.