Il coraggio di cambiare
Natalie Ravenna (Shiley Knight) svegliatasi in un giorno di pioggia nella sua casa di Long Island, si sente inquieta e spaventata. Dopo aver lasciato un biglietto al marito addormentato fa una breve visita ai genitori e poi parte in auto senza una meta lungo l’autostrada, la New Jersey Turnpike, verso una destinazione ignota. La ragazza dopo aver scoperto di essere incinta, terrorizzata dalle responsabilità di moglie e madre, fugge per l’America alla ricerca di se stessa. A nulla valgono le invocazioni del marito che al telefono, ogni volta che si sentono, cerca di convincerla a tornare. Lungo la strada Natalie raccoglie un autostoppista, Jimmy Kilgannon, detto Killer (James Caan), un relitto umano, ex giocatore di football diventato in pratica un ritardato mentale. La strana coppia viaggia in direzione del West Virginia dove lui spera di trovare lavoro in una fattoria. La donna che sperava di avere ritrovato la sua libertà si vede costretta a prendersi cura dell’uomo scoprendo ben presto che non esistono strade da percorrere per sfuggire alle responsabilità della nostra vita. Con “Non torno a casa stasera” del 1969 Francis Ford Coppola firma una pellicola all’epoca non particolarmente apprezzata dalla critica, ma che comunque fa già intravvedere il talento di un autore destinato poi a esplodere tre anni dopo con “Il padrino”. Questo ritratto di donna alla ricerca della sua identità è la rappresentazione della società che sta cambiando spinta anche dalla liberalizzazione sessuale e dalle lotte per i diritti civili in corso nel Paese.
Il film di Sautet s’ispira inevitabilmente al mitico “Jules e Jim” diretto nel ’62 da François Truffaut che però si conclude con toni da tragedia. Protagonista è la sensuale Jeanne Moreau, Catherine, una signora anticonformista che intreccia una lunga relazione amorosa tra due intellettuali, Jules (Oskar Werner), un giovane austriaco e il suo amico parigino Jim (Herri Serre) sullo sfondo di vent’anni di vita europea (dal 1912 al 1933). La donna insoddisfatta della vita e del suo modo di concepire l’amore costruisce un triangolo affettivo come alternativa alla concezione tradizionale del rapporto coniugale. “La coppia probabilmente è un’istituzione superata – affermerà Truffaut – ma al momento non vi sono alternative.”.
Negli anni Settanta anche il nostro cinema propone figure femminili nuove interpretate dalle nostre attrici più quotate, Monica Vitti, Stefania Sandrelli, Ornella Muti e Mariangela Melato. In “Mimì metallurgico ferito nell’onore” di Lina Wertmüller del 1972 la Melato è strepitosa nel ruolo di Fiore, una simpatica sottoproletaria innamorata del meridionale Carmelo (Giancarlo Giannini), operaio siciliano a Torino già sposato con prole, che lei aiuterà a emanciparsi e da cui avrà anche un figlio. Tornato nella sua Catania Mimì coinvolto in una serie di disavventure l’uomo dovrà alla fine vendersi come galoppino elettorale a un boss mafioso per mantenere i figli di tutte le sue donne. Allora delusa dal suo comportamento Fiore lo lascerà per tornarsene al nord.
Nel 1977 un altro personaggio femminile di grande spessore irrompe sugli schermi. E’ quello interpretato dall’attrice americana Jill Clayburgh nel film “Una donna tutta sola” diretto da Paul Mazursky che le fa guadagnare la Palma d’oro al festival di Cannes. Protagonista della pellicola è Erica, direttrice di una galleria d’arte, moglie di un agente di cambio e madre di una ragazza adolescente abbandonata dal marito innamoratosi di un’altra. Dopo un periodo di inevitabile sbandamento “la donna tutta sola” ritrova l’amore nella figura di Saul (Alan Bates), un affascinante pittore inglese divorziato. Benchè felice del suo rapporto lei ha ormai imparato a vivere in maniera autonoma e indipendente. Nella sequenza finale il pittore le regala un suo quadro gigantesco che cala con una fune dalla finestra del suo studio. Erica allora gli dice:”ma adesso come lo porto ?” e lui divertito le risponde “Arrangiati”. Dopo un attimo di incertezza lei afferra il dipinto che trascina senza problemi verso un taxi, metafora della sua ritrovata condizione di donna emancipata.
Nel ’78 Claude Sautet dirige ancora Romy Schneider in “Una donna semplice” cui affida uno dei ruoli più belli della sua carriera. Marie, una quarantenne borghese disegnatrice in un’industria, è divorziata dal marito Georges (Bruno Cremer), un cinico manager e vive con il figlio sedicenne Martin. Stanca anche del suo attuale rapporto sentimentale con Serge (Claude Brasseur), un uomo immaturo, lo lascia rinunciando al bambino che aspetta da lui. Poi riprende a frequentare l’ex marito cui deve chiedere aiuto per un comune amico che la sua ditta sta licenziando. Nel breve ritorno di fiamma Marie rimane incinta, ma decide di non dire nulla a Georges e di tenersi il figlio che alleverà da sola. Per Sautet i tempi sono maturi e la donna è ormai in grado di gestire la sua vita come meglio crede. La società è cambiata, il mondo è cambiato e l’angelo del focolare domestico non esiste più…