Per molti artisti, pensiamo a Pablo Picasso, Giorgio De Chirico e, per il cinema, a Federico Fellini, la terza età è stata contraddistinta da una sorta di ritorno al passato. Al proprio passato artistico e familiare. La stessa cosa sta succedendo a Marco Bellocchio, geniale regista arrivato con grande lucidità alla soglia degli 82 anni essendo nato il 9 novembre 1939. E per Bellocchio il cerchio si chiude là dove tutto è cominciato, ovvero tra Piacenza e Bobbio, la casa di città e quella di campagna della famiglia, teatro di tante opere a cominciare da I pugni in tasca, folgorante esordio nel 1965, per finire, almeno al momento, con il docufiction Marx può aspettare e la Palma d’Oro alla carriera di Cannes. Bellocchio aveva un fratello gemello, Camillo, morto suicida a 29 anni nel “fatidico” 1968. Un uomo “sistemato”, come dice un testimone nel film, l’ultima persona da cui ci si sarebbe aspettati un gesto simile. Che sicuramente ha segnato il regista da sempre attento alle dinamiche familiari e affascinato, quasi stregato, dalla psicologia della “violenza”. A cominciare da quella contro se stessi. Basti pensare alla sua versione cinematografica di Fai bei sogni (2016). Ma sono più di dieci anni ormai che Bellocchio torna, come il più cinematografico dei ladri o degli assassini, sui luoghi del delitto.
Sangue e suolo
A questo proposito possiamo citare Sorelle Mai (2010), che altre non sono se non le zie del regista, e Sangue del mio sangue (2015), entrambi collocati nella “piccola patria” bobbiese. In particolare il secondo, girato a 50 anni esatti dai I pugni in tasca. Film intimo, familiare, personale, a dispetto del soggetto, ambientato in parte nel XVII secolo, non solo per la presenza in scena dei figli Pier Giorgio ed Elena e del fratello maggiore Alberto, ma proprio per l’evocazione fantasmica del fratello morto, il Camillo, appunto, di Marx può aspettare. Un alter ego che il protagonista sente incombere su di sé e che gli condiziona l’esistenza. Anche a motivo della religiosità materna, motore dell’azione con il suo tentativo di “riabilitare” il figlio, prete e suicida a causa della seduzione di una monaca di cui era confessore. E qui il collegamento diretto è con un altro capolavoro del regista di cui riparleremo: L’ora di religione (2002). Del resto l’insieme dell’opera di Bellocchio non è altro che un costante, tenace, quasi maniacale tentativo affrancamento dall’Essere Supremo (Dio) proprio come avviene solo a chi è cresciuto in un contesto in cui la religione dettava e definiva regole e modi, espressioni e stati d’animo, ruoli individuali e sociali. Non a caso il bersaglio costante della critica di Bellocchio è il “principio di autorità”. Sia che si manifesti nella gerarchia domestica, sia che si estrinsechi in quella politica o ecclesiale. E come in Buongiorno notte (2003) o in Vincere (2009) Bellocchio non esita neppure a forzare la storia pur di colpire il bersaglio. Le sofferenze e le torture inflitte alla monaca affinché confessi il suo commercio con il demonio sono una passione laica e femminista che culmina nella più pura e blasfema delle resurrezioni: murata viva, torna dopo decenni al suo splendore corporeo lasciando esanime a terra l’alto prelato che la perseguitava.
Il ’68 e dintorni
Per parlare del “luogo del delitto” bisogna riandare al folgorante esordio di Bellocchio, un debutto di quelli che hanno segnato un’epoca. I pugni in tasca sono il primo segnale nella cultura italiana dell’imminente ’68. In una chiave più assoluta e totalizzante di quella politica che, con il trascorrere del tempo, ha finito per mostrare tutti i suoi limiti. Quel film è il ’68 dell’anima e delle relazioni familiari, base di quelle sociali. «Il ’68 ha fatto esplodere una serie di follie tenute chiuse, di disperazioni domestiche, di violenza familiari, che il film aveva descritto, rivelato, che tutti sapevano, ma che conservavano nel proprio privato» ha detto il regista. A cominciare dallo stesso titolo, citazione di un verso di Rimbaud, il poeta dei furori e degli ardori giovanili. Si tratta della prima quartina del sonetto Ma Bohème: «Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate; / e anche il mio cappotto diventava ideale. / Andavo sotto il cielo, Musa, ed ero il tuo seguace. / Oh! quanti amori splendidi ho sognato!» Protagonista è Ale (un memorabile Lou Castel), diciottenne animato da un’assoluta e incontrollabile pulsione distruttiva, che non esita di fronte ai delitti più atroci: il matricidio e il fratricidio. Sempre in bilico tra deliri di onnipotenza e frustrazione, soccombe a sua volta, solo e inascoltato, nel corso di una crisi epilettica. La fama di Bellocchio autore “antagonista” nasce qui, da questo film che, per ragioni puramente economiche, venne girato, letteralmente, tra le mura di casa. Tuttavia il senso del discorso non poteva essere più generale. In discussione c’era un intero mondo in preda al cambiamento, una generazione (la sua) in cerca di un ruolo e di una dimensione in un’Italia che stava mutando vertiginosamente e non sempre in meglio.
Collegio, caserma, giornale
Per pura comodità cronologica, si può dividere la produzione cinematografica del regista in tre periodi, ciascuno contrassegnato da una precisa matrice ideologica e culturale. Al primo gruppo appartengono i film girati fino al 1976 tra cui La Cina è vicina (1967), Nel nome del padre (1972), Sbatti il mostro in prima pagina (1972) e Marcia trionfale (1976) contraddistinti tutti dal comune denominatore di rappresentare microcosmi chiusi (un circolo di partito, un collegio, la redazione di un giornale, una caserma e, in comune a tutti, la famiglia) al cui interno si sviluppano drammatiche dinamiche individuali e di gruppo che portano all’avvilimento, alla disperazione, alla follia, alla morte. Luoghi che sono terreni di coltura di una realtà esterna più grande fatta di violenza e ipocrisia. A questi stessi anni risale anche la prima regia teatrale di Bellocchio che, nel 1969 mette in scena al Piccolo di Milano un testo di Shakespeare poco noto e ancor meno rappresentato, Timone d’Atene, dramma «del denaro, dell’adulazione, dell’ingratitudine umana». In una parola, del potere inteso come arbitrio legalizzato. Bellocchio opta per una messa in scena antinaturalistica, a cominciare dalle scenografie e dai costumi di René Allio, cui piega anche la recitazione di un mostro sacro quale Salvo Randone: decontestualizzare la drammaturgia shakespeariana per attualizzarla in un momento storico (il ’68 appunto) in cui la crisi del potere sembrava davvero dovesse portare a imminenti cambiamenti nell’assetto sociale del paese.
“Disonorevole” appartenenza
Dalla scarna e, tutto sommato, tranquilla biografia di Bellocchio emergono due dati che presentano una certa rilevanza per la sua arte: una remota educazione cattolica negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza (il collegio di Nel nome del padre è un riflesso personale oltre che un omaggio a Zéro de conduite di Jean Vigo) e una repentina adesione al comunismo più radicale negli anni della maturità. A teatro e al cinema Bellocchio incarna, insomma, in anni tanto caldi, la coscienza critica del sistema, analizzato e aggredito nelle sue varianti più retrive e nell’ambito del più classico trittico delle oppressioni: Dio, patria e famiglia. Non a caso, nello smarrimento generale sessantottesco e post-sessantottesco, Pier Paolo Pasolini scrive a Bellocchio: «Le auguro di turbare sempre più le coscienze dell’Esercito, della Magistratura, del Clero reazionario, e insomma della Piccola Borghesia italiana, a cui abbiamo il disonore di appartenere». È il viatico di un “fratello maggiore” (Pasolini era del ‘22) al più talentuoso esponente della generazione successiva che, attraverso la carica eversiva del ’68, si affacciava alla ribalta della storia con il proprio carico di idee sovvertitrici e di rabbia non più repressa né reprimibile.
Lucida follia
Tra i film non di fiction girati da Bellocchio riveste notevole importanza il documentario a “otto mani” (in collaborazione con Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli) Matti da slegare commissionato dall’Assessorato alla Sanità della Provincia di Parma nel 1974. Il film nasce come due distinti reportage, intitolati Nessuno o tutti e Matti da slegare, la cui durata complessiva oltrepassa le 4 ore. Anche qui si parte da una citazione lirica: «Nessuno o tutti – o tutto o niente. / Non si può salvarsi da sé. / O i fucili – o le catene. / Nessuno o tutti – o tutto o niente» è il refrain della poesia Polvere da sparo di Bertolt Brecht, autore del pantheon comunista particolarmente studiato e rappresentato proprio negli anni ’70. Tema del documentario (da cui anche la committenza pubblica) era la devianza psichica. Correvano gli anni in cui Franco Basaglia si batteva per la chiusura degli ospedali psichiatrici, che nel 1978 diventerà una legge dello Stato. «La follia è una condizione umana» scriveva Basaglia. «In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere». Parole che compendiano alla perfezione il senso e lo stile del film. L’intuizione degli autori nel mettere insieme il materiale girato nelle diverse strutture sanitarie pubbliche e private, nelle case-famiglia, nelle abitazioni dei “malati”, è proprio quella di abolire, almeno sullo schermo, le barriere che la società, il pregiudizio, la tradizione e l’interesse economico erigevano ancora attorno alla cosiddetta devianza psichica.
Nei meandri della psiche
Nei primi anni ’70 Marco Bellocchio stringe amicizia con lo psicanalista “eretico” Massimo Fagioli secondo cui Freud è «un imbecille» e Marx «necessario ma non sufficiente». L’influenza di Fagioli sui film di Bellocchio è notevole, tanto che nel giro di poco tempo lo studioso entra anche nei processi creativi dei film come cosceneggiatore. Sono gli anni della crisi delle ideologie (e dell’ideologia comunista in particolare) nel momento in cui stanno maturando i più grandi sconvolgimenti politici dalla Seconda Guerra Mondiale: in Italia la fine della cosiddetta Prima Repubblica e dei partiti tradizionali sotto le inchieste giudiziarie di Mani Pulite e Tangentopoli, sullo scenario internazionale il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione del blocco sovietico. Su una cosa Fagioli è estremamente lungimirante e, in tale analisi, l’ex cattolico e “comunista pentito” Marco Bellocchio non può che trovarsi d’accordo con lui: «Il comunismo ha ignorato e
annullato l’inconscio. Lo stesso ha fatto e fa il cristianesimo per cui l’inconscio o non esiste o è il Male. E l’identità umana allora starebbe nella Ragione: no, le cose non stanno così. L’identità umana non è la Ragione: bisogna volgere la ricerca verso ciò che non è Ragione, l’irrazionale». Affermazione che può essere letta in filigrana sotto la grandissima parte dei film realizzati tra l’80 e il ’94, ossia Salto nel vuoto (1980), Gli occhi, la bocca (1982), Diavolo in corpo (1986), La visione del sabba (1988), La condanna (1991) e Il sogno della farfalla (1994). Periodo e titoli che rappresentano forse il momento più debole del Bellocchio autore. Debole proprio perché non solo vengono meno i supporti ideologici (possiamo chiamarle le certezze?) che l’avevano accompagnato e sorretto negli anni precedenti, ma viene anche meno un po’ di quella rabbia interiore che, se da un lato porta alla follia, dall’altro reca in sé una dirompente carica eversiva.
Il mistero dell’inconscio
Un cinema molto “teatralizzato”, ovvero Enrico IV (1984) da Pirandello con uno straordinario Marcello Mastroianni, e Il principe di Homburg (1997) da Von Kleist sono le due opere che segnano il progressivo distacco dall’influenza di Fagioli anche se il regista continua a nutrire interesse per il rapporto tra follia (ovvero sogno) e realtà in quella fascia di confine dove l’uno confluisce nell’altra e dove entrambe sfumano nel mistero dell’inconscio. Folle è il personaggio pirandelliano che si rifugia in una falsa follia per rivivere una realtà di 20 anni prima, irrimediabilmente perduta, e che dopo un delitto torna a rinchiudersi nella prigione di quella pazzia, ben più atroce di un carcere di pietra. Al personaggio kleistiano che ha ottenuto un’insperata vittoria in seguito a un atto di insubordinazione, chiamato a giudicare se stesso, si apre invece il dilemma radicale tra l’affrontare la morte per aver trasgredito gli ordini e rifugiarsi nella viltà, aver salva la vita e, con essa, la sospirata unione con la sua promessa sposa. Qui è il sogno a essere più forte della realtà. Un finale sostanzialmente ricalcato sette anni dopo in Buongiorno notte, con quella apertura all’impossibile che consente ad Aldo Moro (uno straordinario Roberto Herlitzka), prigioniero delle Br, di concludere la propria vita (e la propria parabola politica) con la “fuga dalla realtà”. In una dimensione onirica che però ci restituisce la sua “storia” nella maniera più autentica. Da notare, a proposito di quest’ultimo film, che, ancora una volta, il titolo è desunto da una poesia. In questo caso di Emily Dickinson: «Buongiorno, mezzanotte. / Torno a casa. / Il giorno si è stancato di me: / come potevo io – di lui? / Era bella la luce del sole. / Stavo bene sotto i suoi raggi. / Ma il mattino non mi ha voluta più, / e così, buonanotte, giorno! / Posso guardare, vero, / l’oriente che si tinge di rosso? / Le colline hanno dei modi allora / che dilatano il cuore. / Tu non sei così bella, mezzanotte. / Io ho scelto il giorno. / Ma, ti prego, prendi una bambina / che lui ha mandato via».
Ritorno alle origini
Nell’arco di un decennio, film come L’ora di religione (2002), Buongiorno notte, Vincere e Bella addormentata (2012) riportano il regista a quell’impegno ideologico che aveva contraddistinto l’inizio della carriera. Sempre filtrato da un’accurata analisi psicologica delle dinamiche esistenziali. È l’inizio di quel “ritorno alle origini” da cui abbiamo preso le mosse, ma con un respiro più ampio, una maggiore lucidità e minore frenesia senza per questo essere arretrato di un millimetro nella critica alla realtà contemporanea. Certo, il primo decennio del XXI secolo ha poco a che vedere con i “favolosi anni ’60”, ma nel frattempo il mondo è sicuramente peggiorato e il nostro paese, forse, più di altri. Un decadimento morale prima ancora che politico. Dove le forze più retrive hanno cambiato pelle, ma non sostanza. Si sono modificate nella forma, ma non nell’azione pervasiva all’interno della società. E poco importa se sullo schermo scorrono vicende ormai consegnate alla storia come il Caso Moro, la torbida origine del fascismo o il totalitarismo curiale della Chiesa Militante: il discorso di Bellocchio è sempre rivolto all’oggi e nelle tasche del suo paletot le mani sono sempre chiuse a pugno.
Onora il padre?
Ed eccoci dunque, di nuovo, in casa Bellocchio con un padre, l’evanescente avvocato Francesco, di cui Marco bambino sentiva i passi nell’appartamento, di notte, quando, non riuscendo a prendere sonno, passava di stanza in stanza a osservare i suoi ragazzi che dormivano. Il genitore muore quando il futuro regista è adolescente e in moltissimi suoi film il disagio scaturisce anche dall’assenza di una figura paterna. O, per contrasto, da una presenza ossessiva, fortemente connotata in senso negativo. Figure paterne negative sono quelle del giovane Mussolini che rifiuta il figlio avuto da Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno) in Vincere e quella del capitano Asciutto (Franco Nero), in Marcia trionfale. Benché Asciutto non abbia figli carnali, esercita sui suoi soldati, in particolare sulla recluta Paolo Passeri (un giovanissimo Michele Placido) un ascendente paterno e, all’interno del mondo chiuso della caserma, si pone come modello esistenziale. Proprio parlando con Passeri, l’ufficiale riassume le sue folli teorie pedagogiche: «In fondo mi basterebbe poco: che mia moglie mi desse un figlio. Avere qualcosa da impastare, da plasmare… Che diventi davvero quello che vuoi tu. Da tenere sotto tiro dal primo giorno di vita. Un uomo lo puoi far diventare quello che si vuole, no? Sai che bello vedere la gente cambiare sotto i tuoi occhi… Pensa, un figlio tuo tutta la vita. Da piccolo, di notte, lasciarlo piangere. Poi mandarlo alle scuole pubbliche. Acqua fredda e senza riscaldamento. E dopo la quinta elementare, tutta l’estate all’estero, così impara ad arrangiarsi. E dopo la terza media, a puttane! Ce lo porto io: saltare il periodo delle seghe…». Figure paterne meno opprimenti compaiono invece nel Principe di Homburg (il Grande Elettore) e in Buongiorno notte (Moro), forse proprio perché si tratta di padri “putativi” e non carnali.
Senza padri, padrini o patroni
L’unico film in cui il regista rappresenta sullo schermo un tenero, bellissimo rapporto padre-figlio è L’ora di religione: quello tra Ernesto Picciafuoco (Sergio Castellitto), il protagonista, e Leonardo, il suo bambino di 7-8 anni. Rapporto intenso e positivo, nonostante Ernesto e sua moglie Irene siano sul punto di separarsi. In questa stessa pellicola emerge peraltro, più che altrove, la valenza negativa della figura paterna come «culla degli atti ribelli» nel lungo dialogo tra Ernesto e sua zia Maria (Piera Degli Esposti), anima della macchina mediatica che dovrebbe portare sugli altaribla madre di Erenesto, Marta, uccisa da uno dei suoi cinque figli, malato di mente. «La famiglia Picciafuoco non conta più nulla perché non ha un protettore» attacca la zia. «Perché senza un protettore… un padre… un padrino… un patrono, tu non sei nulla. Qualunque padre, purché sia un padre: la massoneria, l’Opus Dei, l’Istituto Gramsci, la Famiglia Marchigiana, il Circolo della Caccia, i Terziari Francescani… Per ritrovare il padre, la famiglia Picciafuoco deve conquistare un titolo che le restituisca dignità, prestigio, riconoscibilità… Voi rischiate l’anonimato, il nulla. Questo titolo è la santificazione di tua madre… I vostri figli devono tornare ad avere quella posizione di privilegio che voi, per i vostri ideali fallimentari, avete sperperato». «Il mondo non cambierà mai…» commenta amaramente Ernesto. «E perché dovrebbe cambiare?» insiste la zia. «Perché se non si mandano a fare in culo i padri e le madri… Ma definitivamente, radicalmente…» insorge Ernesto. «Ma non ti vergogni a parlare ancora così? A perseverare nell’idiozia?». Ecco un bel ritratto di “interno” borghese. O “inferno” se preferite. Dunque, Bellocchio torna al ‘68 e lo rilegge come ribellione contro i “padri”, mentre gli “ideali fallimentari” sono quelli di emancipazione, di rivolta contro le convenzioni domestiche, lo scardinamento della famiglia come mattone basilare dell’intera architettura sociale e ideologica del potere. Per altro verso, il «mondo che non cambierà mai» è la morte delle idee e la tomba delle libertà. Eppure, ci dice Bellocchio, quaranta, cinquanta o anche sessant’anni dopo il ’68 c’è ancora chi «persevera nell’idiozia» di credere che la società (le persone) si possono cambiare. E persino cambiare in meglio. E, come conclusione, ancora una poesia inserita in questo film: «È fuggita l’estate / e nulla rimane. / Si sta bene al sole. / Ma questo non basta. / Quel che poteva essere / una foglia a cinque punte / mi si è posata sulla mano. / Eppure questo no, non basta. / Né il bene né il male / sono passati invano. / Tutto era chiaro, luminoso. / Eppure questo non basta. / La vita mi prendeva / sotto l’ala, mi proteggeva, / mi sollevava. Ero davvero fortunato. / Eppure questo non basta. / Non sono bruciate le foglie, / non si sono spezzati i rami. / Il giorno è terso come il cristallo. / Eppure questo non basta». Scelta quantomeno singolare in quanto si tratta di una lirica del poeta russo Arsenij Tarkowski (1907-1989), padre del regista Andrej (1932-1986). Genitore tutt’altro che amorevole, in quanto abbandonò la famiglia quando il figlio aveva tre anni per farvi ritorno solo dieci anni dopo. A quanto si sa Andrej visse in modo lacerante il mancato rapporto con il padre, riversando invece sulla madre un amore quasi ossessivo. Anche a non voler caricare questi risvolti di troppi significati, resta il fatto che, dietro la poesia, si cela, ancora una volta, un forte conflitto familiare: ossia un soggetto perfetto per un film di Bellocchio.