AL CINEMATOGRAFO: SE NE PARLA E PIACERA’ ANCHE A NOI
DA SCOPRIRE NELLE SALE CINEMATOGRAFICHE
Settembre 2004: Fergus, soldato delle forze speciali inglesi, convince il suo amico d’infanzia Frankie, un ex-parà, a unirsi alla sua squadra di contractor a Baghdad. Un’occasione per fare un po’ di soldi mettendo a repentaglio la propria vita in una città dominata da violenza, terrore e avidità. Tre anni dopo, quando Frankie viene ucciso sulla Route Irish (la strada che collega l’aeroporto di Baghdad alla Green Zone), Fergus torna a Liverpool e, mosso dalla disperazione, dai sensi di colpa e dal dolore, inizia a fare delle indagini sulla morte dell’amico. Non per senso di giustizia, ma di vendetta. Un film di denuncia, che chiama a riflettere sul terribile “sistema guerra”, in particolare su quello dei contractors, mercenari che per denaro proteggono i privati. E la voce indignata del regista Loach è ben percepibile attraverso un’analisi lineare di questo sistema fuori controllo, che tuttavia lascia solo abbozzate le dinamiche psicologiche che muovono i personaggi.
Tratto dall’omonimo bestseller, il film ripercorre gli ultimi mesi di vita del giornalista e scrittore Tiziano Terzani: malato di cancro, richiama in Toscana il figlio Folco (che vive a New York) per raccontargli la storia della propria vita. Dalla sua infanzia a Firenze all’esperienza trentennale come corrispondente per l’Asia del Corriere della Sera e di Repubblica, fino ai tre anni di isolamento sull’Himalaya. I densi dialoghi tra padre e figlio, i silenzi e gli sguardi nell’affascinante cornice del paesaggio rurale toscano: questi gli ingredienti di questa bella pellicola, che ci racconta di un passaggio di conoscenze e di esperienze. Un’opera, quindi, fatta di parole più che di movimenti, nella quale il giornalista Terzani si prepara e si abbandona alla morte con accettazione, dopo aver riconosciuto che si può guardare al passato senza rimpianti, soprattutto se si ha vissuto la vita che si desiderava. E il regista Jo Baier mette in scena in maniera quasi teatrale questo “ritrovarsi e raccontarsi” tra padre e figlio senza mai scadere nella retorica o nella pedanteria.
DA ACQUISTARE
Tramite continui flashback, “La pecora nera” racconta la vita di Nicola dal 1975 al 2005, dall’infanzia vissuta con la nonna fino alla sua condizione di “ospite” in un ospedale psichiatrico. È il racconto di un disagio: quello di un bambino taciturno, senza amici, con la madre in manicomio e deriso continuamente dal padre e dai fratelli. Attraverso la vicenda del “povero scemo” Nicola (il “diverso”, e dunque la pecora nera), Celestini analizza gli ospedali psichiatrici, luoghi di privazione di affetti e soprattutto di pensieri (“i matti hanno il cervello vuoto perché protetti non hanno nulla cui pensare, e il vuoto fa paura”). E lo fa anche grazie ad una sceneggiatura e una fotografia che prediligono i toni scuri e cupi, quasi a richiamare gli abissi insondabili della mente umana. Un tema, quello della malattia mentale, di urgente attualità e affrontato con originalità. Ottima la performance di Giorgio Tirabassi, che riesce davvero a rendere tragicamente reale la follia di Nicola.