regia Clint Eastwood sceneggiatura Jason Hall cast Bradley Cooper (Chris Klye), Sienna Miller (Taya Renae Klye), Cory Hardrict (D), Jacke McDormand (Ryan), Navid Negahban (lo sceicco), Luke Grimes (Marc Lee) durata 132′
Leonardo Sciascia nel Giorno della civetta faceva dividere dai suoi mafiosi siciliani il genere umano in cinque categorie: «gli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà». Più sobriamente Eastwood, attraverso il personaggio del buon padre di famiglia texano tutto armi&praterie, semplifica le cose e li suddivide in tre sole specie: le pecore, i lupi e i cani pastore. Va da sé che le pecore sono la maggioranza, che i lupi non aspettano altro che di papparsi le pecore se non fosse per i pochi, eletti, cani pastore messi a guardia del gregge. Ecco: il succo del film è tutto qui, nei primi dieci minuti. Alla tavola imbandita di una casetta alla Paperino con il genitore che si sfila minaccioso la cinghia dei pantaloni davanti ai due figli maschi e alla moglie compita che pende dalle sue labbra mentre trancia la sentenza di cui sopra che equivale all’investitura del primogenito a cane pastore.
Inevitabile che sull’onda emotiva degli attentati alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania del 1998 e delle Torri Gemelle nel 2001 cotanto pastore si arruoli nei corpi d’elite dell’esercito stelle&strisce. A questo punto parte l’armamentario retorico-cinematografico del genere bellico: il bravo figliolo che segue i consigli e le orme del padre, la guerra come questione personale tra i “buoni” (che siamo sempre noi) e i “cattivi” (che sono sempre gli altri). Indiani Sioux o jihadisti poco importa. E poi l’amicizia virile, il recupero sul filo del rasoio del combattente circondato dai nemici, l’arrivano i nostri non più a cavallo di un caval, ma con elicotteri, puntatori laser, droni e infrarossi. Nel film di Eastwood non convince neppure quello che dovrebbe essere il coté psicologico del cane pastore, ovvero la sua storia d’amore messa a rischio dai traumi della guerra. Troppo superficiale l’approccio con tanto di quadretto familiare della ritrovata armonia proprio nel giorno in cui l’eroe viene fatto uscire di scena.
Le cose non vanno meglio neppure sotto il profilo formale, anche qui con tutto il vecchio ciarpame estetico: il ritorno del reduce nella calda luce del tramonto, il suo funerale sotto un cielo grigio e gonfio di pioggia tra uno sventolio di bandiere e squillare di trombe. Insomma, dal punto di vista cinematografico in due ore e passa di film non c’è una sola invenzione. E, qualora non bastasse, le scene belliche vere e proprie alla lunga risultano stancamente ripetitive, piuttosto noiose e inutilmente assordanti. Eppure Eastwood in qualche occasione (Million dollar baby e Gran Torino, per esempio) aveva fatto cosine discrete, mostrato un briciolo di inventiva pur restando nei solchi del film di genere. Qui si salvano solo gli attori, impegnati a rendere credibili personaggi senza spessore psicologico anche se Cooper recita alla Eastwood prima maniera. Quello a due espressioni: con il cappello e senza. Detto ciò – e proprio per questi motivi – non è difficile pronosticare che il film sarà un successone. Il nostro povero pubblico di analfabeti cinematografici di ritorno lo troverà bellissimo e riempirà le sale.
Considerazione ultima. Se nell’anno di grazia 2014, nel Paese più invischiato al mondo in guerre inutili e insensate (se mai ce ne fossero di sensate), guidato da un premio Nobel per la pace, forse qualche riflessione si imporrebbe nel definire il quadro storico di ciò che viene sciorinato sullo schermo. Chiederlo a un vecchio signore di ottantaquattro anni, sfegatato per le armi, è però un esercizio inutile.