Continuano gli articoli che ci vedono protagonisti: questa volta la parola all’esperta in Demografia:
“Tutti i paesi industrializzati, Europa in testa, sono oggi interessati dal fenomeno, che ridisegnerà il profilo demografico dell’Europa nei prossimi 25 anni” conferma Manuela Stranges[1], ricercatore in Demografia al Dipartimento di Economia e Statistica dell’Università della Calabria, uno degli Atenei eccellenti del nostro Paese. “In futuro, il processo di invecchiamento demografico tenderà a interessare un numero sempre maggiore di Paesi, con tempi e modalità differenti. Come già accaduto in Europa, in una prima fase questi Paesi subiranno un ‘invecchiamento dall’alto’, ossia un allungamento della vita media grazie al calo generalizzato della mortalità (conseguenza del miglioramento delle condizioni economico-sociali e igienico-sanitarie); poi l’invecchiamento demografico tenderà ad acuirsi man mano che questi Paesi subiranno il processo di modernizzazione della società: il miglioramento dello status sociale e familiare della donna, la maggiore diffusione dei mezzi di contraccezione, l’aumento della scolarizzazione, il miglioramento delle condizioni economiche determineranno un deciso calo della fecondità. L’azione congiunta di questi due fenomeni squilibrerà fortemente i rapporti tra i diversi gruppi di popolazione. Ovviamente tale scenario è plausibile per i Paesi in via di sviluppo, mentre quelli per i quali si profila il permanere anche nel lungo periodo di condizioni di sottosviluppo non saranno interessati, almeno nell’immediato futuro, dal processo di invecchiamento”.
Nel 2050 tra i Paesi più vecchi anche quelli oggi in via di sviluppo
Per comprendere meglio la situazione dei Paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo in termini di invecchiamento demografico basti pensare che nel 1950 i dieci Paesi più vecchi del mondo erano tutti europei (a esclusione delle Channel Islands, le Santa Barbara Islands, a Sud della California), con un’età media della popolazione compresa tra i 32,7 anni della Norvegia e i 35,7 dell’Austria (l’Italia non compariva ancora in questa graduatoria). Oggi, nel 2009, l’Italia è il terzo Paese più vecchio al mondo (con un’età media di 43 anni), dopo il Giappone (44,4) e la Germania (43,9). Sempre nel 2009 compare in questa classifica la regione cinese di Hong Kong, che occupa il decimo posto, con un’età media di 41,3 anni. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite (revisione 2008)[2], al 2050 otto su dieci dei Paesi più vecchi del pianeta saranno tra quelli attualmente in via di sviluppo. Inoltre i primi cinque in graduatoria saranno Paesi asiatici: al primo e terzo posto ci saranno, rispettivamente, le regioni speciali cinesi di Macao (con un’età media pari a 55,8 anni) e Hong Kong (55,7 anni), separate da Giappone, Corea e Singapore.
“Per quanto riguarda la Cina il discorso è abbastanza complesso” continua Manuela Stranges[3]. “Alla naturale azione dell’invecchiamento dall’alto (l’allungamento della vita = longevità) e dal basso (la riduzione delle nascite = denatalità), si è unita l’azione umana delle politiche di controllo delle nascite che ha acuito ulteriormente l’erosione dal basso della popolazione cinese. In particolare, la politica del figlio unico, che aveva l’obiettivo originario di porre un freno alla crescita smisurata della popolazione cinese, ha avuto il risultato secondario di scompensare progressivamente la struttura per età (e anche per sesso, data la preferenza accordata ai figli maschi e le pratiche di selezione che ne sono conseguite) della popolazione, determinando un invecchiamento molto più rapido rispetto ad altre aree interessate dalle medesime condizioni di sviluppo sociale ed economico. Molti studiosi ipotizzano che, nella corsa allo sviluppo economico, l’India sorpasserà la Cina, che si troverà tra pochi anni a fare i conti con i gravi problemi derivanti dall’invecchiamento demografico, primo fra tutti la sostenibilità del sistema di welfare, già peraltro poco garantito in questo Paese”.
In Italia, il processo di invecchiamento demografico è, dunque, particolarmente intenso e rilevante nelle sue conseguenze sociali ed economiche. La percentuale di over65 è passata da un valore di poco superiore all’8% degli anni ‘50 all’attuale 20%. Ma se nel tempo la quota di popolazione adulta si è mantenuta relativamente stabile attorno a un 66% circa, la crescita della popolazione anziana è avvenuta “a scapito” della popolazione giovane che, negli stessi anni, è passata da oltre il 26% al 14% di incidenza sul totale della popolazione. Ciò che è radicalmente mutato è l’equilibrio esistente tra le diverse componenti della popolazione, tanto che l’indice di vecchiaia, che misura quanti anziani (65+) ci sono per ogni cento giovanissimi (0-14 anni), è passato da un valore del 31% della metà del secolo scorso al 143% di oggi. È facile, quindi, intuire che tale situazione tenderà a peggiorare in futuro: i pochi adulti delle odierne coorti giovanili dovranno sostenere il peso dei molti anziani delle odierne coorti adulte.
L’invecchiamento demografico nei prossimi anni inciderà pesantemente infatti sull’equilibrio tra componenti improduttive e componenti produttive: attualmente, sulla partecipazione dei lavoratori agiscono l’azione di spinta all’uscita dal mercato del lavoro e di fattori attrattivi verso il pensionamento.
Per quanto concerne la domanda, è importante considerare i fattori che influenzano la scelta del datore di lavoro di assumere o mantenere persone mature all’interno della propria azienda, spesso basati più su stereotipi e pregiudizi che su elementi concreti: l’idea della rapida obsolescenza delle competenze e delle capacità dei lavoratori più anziani, le presunte ridotte performance lavorative, l’avversione ai cambiamenti e agli spostamenti. A questi fattori, che nessuno studio scientifico avalla, si unisce il maggior costo legato ai criteri di avanzamento nella carriera per anzianità che spesso si traducono in salari più elevati per i dipendenti più maturi, facendo così lievitare i costi relativi alla loro assunzione o al loro mantenimento. Tutto ciò porterebbe i datori di lavoro ad assumere personale più giovane, che può rappresentare un costo minore rispetto a quello di età più elevata (o a non sostituire il personale in uscita per pensionamento). La correlazione positiva tra età e stipendio è confermata anche da numerosi studi internazionali. Così dicono gli esperti. [4]. Dal lato dell’offerta, invece, vanno considerati tutti i fattori che spingono le persone ad abbandonare la propria attività lavorativa. Si pensi, ad esempio, all’eccessivo uso di strumenti assistenziali che determina una diminuzione dell’attaccamento al lavoro e l’idea di poter uscire prima dal mercato avvalendosi di tali strumenti, o ancora ai vari tipi di disincentivi fiscali che potrebbero scoraggiare chi decide di continuare lavorare anche una volta raggiunta l’età pensionabile. Tra i fattori da tenere in considerazione non vanno dimenticati quelli psico-sociali, quale l’idea che può maturare nei lavoratori più anziani di inadeguatezza ai sistemi economici in continua trasformazione, che richiedono adattamenti, spesso repentini, delle proprie competenze e abilità. Proprio per quest’ultimo punto, si delinea con forza l’importanza di un processo formativo distribuito su tutto l’arco della vita lavorativa delle persone, per favorirne l’idoneità continua al mercato del lavoro, favorendo anche l’attaccamento lavorativo e disincentivando l’uscita prematura[5].
D’altro canto si registra anche la tendenza, in situazioni sociali certo particolarmente favorevoli, a uscire dal mondo del lavoro dipendente, per collocarsi in iniziative diverse e attività in proprio.
[1] Stranges M. (2008), “Dinamiche demografiche e mercato del lavoro in Italia“, in Quaderni Europei sul Nuovo Welfare, 2008, n. 10, pp. 192-209.
Stranges M. (2007), “Immigration as a remedy for population decline? An overview for the European countries”, in European Papers on the New Welfare, n°8, luglio 2007, Risk Institute, Geneve-Trieste, pp. 179-190.
[2] United Nations, World Population Prospects: The 2008 Revision, 2009
[3] Stranges M. (2008), “Demographic ageing and structural imbalances in China”, in European Papers on the New Welfare, 2008, n. 9, pp. 198-211.
[4] Stranges M. (2006), “Invecchiamento demografico e mercato del lavoro: il ruolo dei processi di lifelong learning”, in Affari Sociali Internazionali, vol. 34, n°1, 2006, Franco Angeli Editore, Milano, pp. 123-144.
[5] Stranges M. (2007), “L’invecchiamento demografico in Italia: verso un miglioramento della relazione tra età e lavoro”, in Quaderni Europei del Nuovo welfare, n°07, febbraio 2007, Istituto del Rischio, Trieste-Ginevra, pp. 102-118.