È un periodo in cui non ne faccio una giusta. In più, oltre agli sbagli che commetto io, ci sono anche le circostanze che si mettono di traverso. Ho letto da qualche parte che una giornata senza un sorriso è una giornata sprecata. Sono quelle frasi che sembrano giuste e condivisibili finché non si attraversa un periodo buio. A volte per sorridere i motivi bisogna averli. Vado sempre ripetendo a me stessa che c’è chi sta peggio (questo è certo e sicuro e non è sano né corretto dimenticare i privilegi di cui si gode), che potrebbe andare peggio, che bisogna reagire, che avere un atteggiamento propositivo aiuta a migliorare il proprio approccio al mondo e fa sì che il prossimo abbia nei tuoi confronti un feedback positivo, cioè non ti metta i bastoni tra le ruote e non ti mandi all’inferno più del dovuto.
Me lo ripeto come un mantra ma in questi giorni faccio fatica a crederci persino io, che sono una che crede a tutte le favole che sente, comprese quelle meno credibili. Non avessi già abbastanza dubbi miei, ci mancano pure gli appuntamenti sociali, i doveri personali e quelli di buon cittadino. Viene voglia di lasciarsi andare, di arrendersi. Ma come si fa ad arrendersi? È un peccato abbandonare la partita quando si sta perdendo così bene.
Ieri pensavo a tutte queste stupidaggini mentre spolveravo la scrivania di mio figlio, quando mi sono imbattuta in una fotocopia abbandonata lì come per caso, ma ci sono volte in cui il caso non esiste e, se esiste, stranamente lavora per consolare le anime.
In origine il poeta l’aveva intitolata “Cielo e Mare”, poi aveva deciso che come titolo era più adatto “Mattina”.
Questa poesia parla della luce che arriva dopo il buio, del miracolo del risveglio, della possibilità che si rinnova ogni giorno di vedere qualcosa di nuovo, di guardare più lontano, di sperare. Di vivere, insomma. Ungaretti quando scrisse queste poche grandissime parole non era felice e beato in un giardino di primavera. Faceva freddo, lui aveva 29 anni ed era un soldato in guerra. Si trovava a Santa Maria la Longa ed era la fine di gennaio del 1917.
Sono rimasta con lo swiffer a mezz’aria di fronte a questa poesia che conosco da una vita, proprio come quelle parole non le avessi mai lette prima. Ho pensato a quel giovane uomo al fronte e a me con i miei molti anni che faccio i mestieri. Ognuno fa il suo dovere, in fondo, ma aldilà del dovere, di quello che si fa, c’è quello che si è. A volte chissà perché si tende a dimenticare un concetto tanto ovvio che non varrebbe nemmeno la pena di sottolinearlo, se non fosse così disperatamente indispensabile ricordarselo. Non tutti i giorni si è pari a se stessi, non tutti i giorni si ha ben presente che in noi c’è qualcosa di più della persona che pulisce, che lavora, che cucina, che insomma svolge le proprie consuete mansioni. E questo è un peccato, un peccato che ci consuma.
Meno male che a salvarci dalle nostre miserie quotidiane ogni tanto giunge inaspettato il potere rivoluzionario della poesia.