Questo mese cambio vita

Oggi è il quarto anniversario dell’intervento chirurgico che mi ha salvato la vita. Quando guardo l’enorme cicatrice che questa esperienza ha lasciato sulla mia pelle un po’ mi sento uno di quei tacchini del Thanksgiving Day che si vedono nei film americani, un po’ mi sento un reduce di guerra dei film americani, un po’ mi sento parecchio fortunata. Perché, diciamola tutta, mi è andata di lusso.

Quattro anni fa, uscendo dall’ospedale sulle mie gambe, ho pensato che era il caso di stappare magari non lo champagne, ma almeno un chinotto sì. Pensandoci ora, credo sia sempre il caso di stappare lo champagne o uno spumante di classe (non di quelli con il tappo di plastica bianca, insomma) quando si sopravvive. Altro che chinotto, con tutto il rispetto per questa piacevole bevanda. Bisogna brindare bene al fatto di essere vivi. Purtroppo una domanda è rimasta, anche lei sopravvissuta agli eventi: perché io sì e un altro no? Perché in ogni battaglia ci sono dei caduti e dei reduci?

Ho sempre pensato che chi torna da certe esperienze e non si sente un reduce allora vuol dire che non ha capito cosa gli è successo. Invece invecchiando (a differenza di altri, alcuni dei quali a me molto cari, ho avuto questa sorte) ho capito che non è detto sia così. C’è gente che sopravvive convinta. Beati loro. Un po’ invidio chi non si pone questioni, chi accetta le cose come sono andate con la calma dei giusti, senza coltivare dubbi o sensi di colpa oppure dimostrando una fede degna di grandissimo rispetto. Per me non è mai stato così.

Durante la convalescenza mi sentivo come un extraterrestre sceso sulla Terra, poi piano piano ho ripreso il mio habitus di terrestre, ma mai del tutto. In me è sempre rimasto qualcosa di marziano, come se in qualche modo fossi qui in prestito, per caso. Non ho passato gli scorsi quattro anni a fissare il soffitto, questo no di certo, ma essere sopravvissuti non vuol dire solo essere rimasti qui a fare quello che si faceva prima, ma significa avere avuto in dono un’altra occasione, direi quasi una nuova vita. È una responsabilità. Ora credo che dovrei fare nuovi progetti, impegnarmi in un maggior numero di imprese, gettarmi allo sbaraglio con più convinzione. Ma non in cose a vanvera, questo no. Non mi interessano robe tipo trovare me stessa o sperimentare cose che non ho mai fatto tipo la sauna finlandese o il rafting. Ciò non fa per me. Voglio vivere con più coscienza, perdere meno tempo in cose inutili e fare cose utili. Non necessariamente utili a me, ma che in generale abbiano senso invece che essere perdite di tempo. Quando penso a tutto il tempo che perdo e che ho perso mi sale un brivido. Voglio cambiare vita non perché me lo merito, ma perché non credo che un sopravvissuto del mio tipo abbia altra scelta. Ed è esattamente quello che farò. Questo mese cambio vita. Comincio oggi stesso.

 

 

Clementina Coppini: scrive più o meno da quando aveva sei anni, un po’ come tutti. Si è laureata in lettere classiche ma non si ricorda bene come ci sia riuscita. Scrive su Giornalettismo, il Cittadino di Monza (la sua città), El-Ghibli, www.grey-panthers.it e su un paio di giornali cartacei. Ha pubblicato tanti libri per bambini, qualche romanzo come feuilleton su Giornalettismo, un romanzo con Eumeswil e adesso le è venuta questa idea del romanzo in costruzione. Ha una famiglia, due figli, un gatto e si ritiene, non è chiaro se a torto o a ragione, una discreta cinefila e una brava cuoca. Va molto fiera delle sue ricette segrete, che porterà con sé nella tomba.
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