IL GIOCO DELLA PALLA DI LEGNO
Sotto la stanza dei miei figli (per fortuna il contatto è limitato a quel locale e al balcone) abita una quasi ottuagenaria che pare uscita dai libri delle streghe, la Marisa. Marisa svolge nella vita un’unica attività: lamentarsi.
Trova che nulla vada bene. Tanto per cominciare odia i rumori, con particolare riferimento a quelli prodotti da altri. Più volte nel corso dell’anno esce sul balcone urlandomi insulti per via della palla di legno con cui secondo lei giocherebbero i miei figli a tutte le ore, anche quando non ci sono. Sì, è convinta che non mando apposta i miei a scuola per il piacere di disturbare la sua quiete con il basket giocato con la palla di frassino, nota per le sue virtù nel rimbalzo. La Marisa non è altrettanto sensibile ai rumori prodotti da lei medesima: infatti passa intere nottate a smontare e rimontare i pensili della cucina, a spostare i muri con l’ausilio del martello pneumatico e a variare la posizione di ogni stoviglia in suo possesso, visto il clangore che proviene dalla sua magione. Inoltre trova edificante trascorrere ore e ore sul balcone, ameno poggiolo prospiciente lo studio dove lavoro, a berciare le sue interminabili geremiadi alla vicina, una cara persona dedita alle opere di carità, la quale o soffre di una importante sindrome autopunitiva oppure ritiene un proprio preciso dovere morale subire tale abominevole tortura, che andrebbe segnalata ad Amnesty International.
Alle dieci del mattino, puntuale come una pestilenza medioevale, la Marisa esce sul balcone con in mano la scopa e grida il nome della povera Teresa, che tosto giunge con la rassegnazione della vittima. Inizia così il tormento. Quando nessuno va a trovarla, la Marisa dice che è stata abbandonata a se stessa; quando giungono in visita i figli, sostiene che non vedono l’ora che muoia e li riempie di contumelie; i nipoti è convinta che arrivino solo per battere cassa; la gentile e operosa signora ucraina che le fa tutto in casa asserisce sia una scansafatiche e anche a lei riserva una buona dose di vituperio. Il marito lo ha cacciato di casa da anni e non perde occasione per descriverne la pochezza alla prole affranta. Stamattina, mentre stendevo, se la prendeva con i muratori che stanno lavorando otto numeri civici più avanti perché producono polvere che si deposita sui suoi amatissimi soprammobili di Murano. E poi si chiede perché è rimasta sola, questa piaga d’Egitto, carnefice sonoro della Signora Teresa.
All’improvviso, inaspettata, la svolta. La Teresa saluta la Marisa, spiega che ha appuntamento con il parrucchiere perché nel pomeriggio va dal notaio per il rogito della casa al mare che ha comprato, dove si trasferirà per gran parte dell’anno. Data con un tono di perversa gioia la notizia, la donna chiude la porta-finestra in faccia alla petulante anziana e svanisce felice.
La Marisa barcolla per qualche minuto e poi realizza la fregatura. E adesso? Chi perseguiterà d’ora in poi? La molesta vegliarda inizia a guardarsi intorno. Guai se mi vedesse e le venisse la tentazione di rivalutare come interlocutore la madre dei cestisti della palla di legno. Non deve accadere. Mi appiattisco così sul muro come un’ombra immobile e zitta, con i panni in mano, e dopo un po’ con la coda dell’occhio la vedo rientrare.
Sospiro di sollievo. Poi, come ogni giorno, indosso gli zoccoli di quercia e vado a saltare un po’ nella cameretta dei bambini. D’altronde qualcuno dovrà pur vestire i panni del vendicatore di tanta geriatrica crudeltà.
Mentre saltello mi chiedo spesso com’era da giovane la Marisa, se mai sia stata una fanciulla fresca e allegra che sorrideva alla vita. La risposta è no. Se non sia stata in un passato lontano una mente pensante, che rifletteva e imparava. La risposta è ancora no. Invecchiando non si diventa cattivi e fastidiosi se non lo si era già da giovani. Se non si coltiva alcuna virtù, la saggezza non comparirà all’improvviso solo perché è passato un congruo numero di decenni dalla nascita. Compariranno solo le rughe, circondate da un’anima rinsecchita.
La bella vecchiaia è un valore che si coltiva fin da piccoli, negli anni dei giochi con la palla di legno.
(Contributo di Clementina Coppini)