DICIANNOVE LUSTRI
Mario Monicelli diceva “non ho paura di morire, ma del giorno in cui smetterò di lavorare”. L’indipendenza era al centro della sua vita, e forse è per non perderla che ha scelto di congedarsi in modo così drastico e deciso, gettandosi da una finestra dell’ospedale. Avendo avuto una diagnosi nefasta, all’età di 95 anni, chi glielo faceva fare di restare? Temeva di non essere più se stesso, l’austero brillante vecchio che era. Non mi azzardo a dire se abbia o meno fatto bene ad agire in questo modo, ma rispetto la sua scelta, e la comprendo.
Non voleva ridursi in un letto, e perdere la sua indipendenza, appunto. D’altronde se non sei indipendente non puoi essere un artista, poiché tale disposizione d’animo è il fondamento dell’originalità e della creatività, implica e sovraintende alla capacità di vedere in modo del tutto personale le cose. Monicelli è un grande esempio di vecchio operoso e mentalmente lucido, che al suo diciannovesimo lustro ragionava con la freschezza di un ventenne. Lui sapeva che il lavoro è una grande risorsa.
Anch’io nel mio piccolo la penso così. Il mio personale grande vanto, ciò che mi rende davvero autonoma, è il lavoro. Non potrei vivere senza. Lavorare è far funzionare il cervello, costringersi a restare nel mondo, ancorarsi saldamente ai giorni che passano. Non vorrei mai non sapere che giorno è, non avere impegni, riempirmi la vita di bricolage, passatempi o roba simile, perché per me il tempo non va ingannato. Già il verbo ingannare rende l’idea del grande imbroglio che è lasciare che le ore scorrano senza fare niente per salvarne qualcuna, pensando tra il pranzo e la cena solo al menù , e ai programmi televisivi della serata. Ingannare il tempo è un peccato mortale, un’offesa che lui, il tempo, non perdona. Se tu lo prendi in giro lui ti punisce facendo affievolire la volontà, lo spirito e il coraggio, e se vogliamo anche la prontezza di riflessi.
Lavorare non è trovare un modo qualunque per trascorrere la mattina e il pomeriggio. No, è qualcosa di più. È dare struttura e sostanza alle giornate, è avere prospettiva sul futuro.
Se ci arrivo, a novantacinque anni, ci voglio arrivare così, lavorando, facendo qualcosa di utile. Ciò non significa che resterò abbarbicata al posto di lavoro oltre ogni logica e misura, questo non lo voglio fare, non lo devo fare. Voglio arrivarci come Monicelli, con intatta la capacità di discernere, di sbagliare e di scegliere in perfetta autonomia, che agli altri piaccia o meno.
Ci voglio arrivare da persona libera, sull’esempio del mitico Mario, che ha fatto un salto nella leggenda a suo modo. Discutibile, se vogliamo, ma libero, libero dalle convenzioni, e anche dalla paura della morte. Lavorare e insieme essere liberi: questa è una cosa che forse si impara con l’età. Resta da stabilire quanti lustri ci vogliono.
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Clementina dice giusto. Si può smettere di avere "il posto di lavoro", ma non il lavoro, il lavoro, inteso come lo definisce Clementina, deve accompagnarci finchè siamo al mondo. Soprattutto se pensi al lavoro accompagnato da libertà e creatività. Libertà dal bisogno (santa pensione, per noi che "possiamo") e sacrosanta creatività, quella che non deve mai estinguersi. Non è facile lavorare senza rubare lavoro ai giovani, le autentiche pantere devono fare lavori che offrano qualcosa di più e soprattutto di diverso dagli altri lavori, da quelli che abbiamo fatto durante il periodo "ufficiale".SI fa una gran fatica a inventarli, questi lavori, in un equilibrio difficile tra il furto ai giovani e lo sguardo compassionevole di quelli che ti guardano pensando che non hai abbastanza soldi, o che hai il sedere incollato alla tua solita poltrona. Confesso che quando incontro un mio coetaneo/a che riceve il suo sudato assegno chiedo sempre "che fai tutto il giorno"? E voi, pantere, che fate tutto il giorno? Raccontiamocelo nel web! Buone feste. Patrizia
cara Patrizia, hai davvero ragione e grazie per aver aperto questo dibattito (potresti anche impostarlo nuovamente nel forum NOI PROTAGONISTI, molto più visibile. Grazie!